• A proposito del volume "Rimini, dieci anni di economia. Tra passato e futuro", edito da "il Ponte".

    Padre del concetto di «amicizia civica» (da intendersi quale «concordia politica» secondo Nicola Abbagnano [«Dizionario di Filosofia», I]), è quell'Aristotele che giganteggia nella mente del personaggio manzoniano di don Ferrante.
    Il quale lo aveva scelto come suo autore per essere pure lui un filosofo («Promessi sposi», cap. XXVII), anzi un «dotto», come si legge nel passo dove (ib., cap. XXXVII) si dà notizia della sua morte per peste, ovvero per quella strana realtà indimostrabile mediante ragionamento, ma da lui ammessa soltanto quale effetto delle influenze astrali.
    Don Ferrante era in buona compagnia: sua moglie donna Prassede (ib., cap. XXV) «faceva spesso uno sbaglio grosso, ch'era di prender per cielo il suo cervello».

    Se sovrapponiamo all'aristotelismo di don Ferrante le pretese ermeneutiche “totalitarie” di donna Prassede, otteniamo l'ideale figura del filosofo odierno che crede all'«amicizia civile» di Aristotele, ma dimentica che essa è concordia tra uguali in un mondo di disuguali.
    Infatti, come si studiava un tempo, Aristotele ritiene che per “natura” ci siano uomini capaci di fare i cittadini ed altri no.
    Ad esempio, né i coloni né gli operai potevano essere cittadini, ovvero partecipare al governo della cosa pubblica.
    Ritenendo che “per natura” gli uomini non sono uguali, Aristotele legittima la schiavitù.

    Il nostro richiamo alle pagine manzoniane sulla strana coppia Ferrante-Prassede, è non un vuoto ricordo di cose passate, ma un solido richiamo ai tanti fenomeni odierni per cui cerchiamo una concordia politica, anche se non ci preoccupiamo che essa sia garantita da un rinvio non ad Aristotele ma alla nostra Costituzione.
    Vengono a proposito queste preziose parole di Vladimiro Zagrebelsky («La Stampa», 23.11.2015): «La libertà richiede rispetto degli altri e eguaglianza. […] Il vero ineliminabile collante è la tolleranza consapevole. Essa non è relativismo indifferente, ma riconoscimento delle libertà altrui».

    L'«amicizia civile» di Aristotele non perviene a questo riconoscimento. La formula affascina, ma il suo retroterra non garantisce nulla, come dimostra la storia d'Europa che, scrive Zagrebelsky, «ha conosciuto roghi e fucilazioni di eretici e oppositori», per cui dobbiamo difendere «la società aperta, plurale, tollerante» che «è più debole di quella resa monolitica da una unica ideologia totalitaria».
    La forza di questa debolezza, ci sembra, sta nel credere che la «tolleranza consapevole» non nasce da cattive amicizie civiche ma da buone radici di dialogo e confronto, che ogni giorno sta a noi di cercare e trapiantare ovunque.

    Ancora Zagrebelsky. Il 24 dicembre su «Repubblica» ha scritto che, nella vita politica, occorre mirare a rifiutare l'«ingiustizia radicale» dell'utopia (perché «la giustizia solo razionale può diventare un mostro assassino»), attraverso l'educazione, il cui uso da parte della politica andrebbe sottoposto a controllo.

    Stesso giornale e stessa data: il lungo pezzo di Eugenio Scalfari su «Misericordia. L'arma di Papa Francesco per la pace nel mondo» si chiude con un augurio: «che la fratellanza e l'amore del prossimo, la libertà e la giustizia abbiano la meglio su tutto il resto».

    Dunque, per tornare al principio di questa nota, l'«amicizia civica» è nulla se non scaturisce da uguaglianza, libertà e giustizia, con buona pace di Aristotele e dei suoi lettori di oggi.
    Dovrebbe apparire significativo il fatto che il nuovo Vescovo di Palermo, don Corrado Lorefice, nell'insediamento ufficiale, ha citato alcuni articoli della nostra Costituzione, tra cui quello (il n. 3) che recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge…».

    Alla vigilia di Natale, sul «Venerdì» di «Repubblica», Curzio Maltese ha affrontato proprio il tema della dignità, con una sostanziale visione negativa della realtà italiana: «La perdita di dignità», ha scritto, «è inflitta dall'alto al basso, ma viaggia anche in senso inverso e ormai i cittadini non hanno alcuna considerazione delle istituzioni e delle élite».
    Così «un veleno violento» si sparge nella società, facendo risorgere razzismo e xenofobia, e favorendo «la folle corsa a nuove catastrofiche guerre».
    Proprio nella Messa della Notte di Natale, il Papa ha parlato della necessità di «coltivare un forte senso della Giustizia», dando così ragione al suo amico Eugenio Scalfari ed all'articolo di quel giorno, apparso su «Repubblica».

    Ed a proposito di Giustizia, proprio la Chiesa di Roma è tirata in ballo da un'inchiesta nata al suo interno sull'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica: «Poi, sull'iniziativa è sceso il silenzio», commenta Filippo di Giacomo, notista de «il Venerdì» (24.12.2015). Ed infine c'è il processo vaticano “sospeso” contro i due giornalisti italiani Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi.
    Ovvero, non basta parlare di Giustizia, ma occorre praticarla.


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  • In ricordo di Ezio Raimondi, scomparso ieri, pubblico questo vecchio articolo.

    Ezio Raimondi, le confessioni di un letterato

    Il suo «esame di coscienza» ripropone la lezione di Renato Serra, «europeo di provincia»
    Ezio Raimondi è figura, nel mondo della cultura e dell'Università, che ormai appartiene alla storia. Il suo ruolo come docente, scrittore e studioso della letteratura è definitivamente certificato da una serie imponente di opere, da un'attività intensa e continua. Chi lo conosce, nell'incontrarlo idealmente in queste «Conversazioni» che Davide Rondoni ha appena pubblicato con Guaraldi, non può non provare un sentimento fatto di molteplici sfumature: all'ammirazione ed alla simpatia verso l'intellettuale raffinato e sempre attento alle ragioni di chi gli si avvicina, si unisce la commozione davanti ad un racconto che svela particolari nascosti, intimi, di una biografia per tanti versi esemplare.
    «Io vengo da una famiglia popolare»: è l'inizio di queste pagine, che dovremmo prendere con l'attenzione alla quale lui ci ha abituato sia nelle lezioni accademiche sia nelle analisi testuali, per cercare di capire ciò che della sua esperienza umana è diventato non soltanto, qui ed ora, un semplice motivo di ricordanza, un gesto abituale della memoria od un riflesso condizionato dell'intelletto, quanto soprattutto ed essenzialmente un atteggiamento morale, un canone esistenziale, una regola filosofica che Raimondi stesso spiega poi nel corso di questa 'conversazione' con Rondoni. La sintesi ideale di questo suo atteggiamento è proprio nelle righe conclusive, ed il fatto non è assolutamente casuale in uno scrittore come lui, che delle strutture letterarie discute da sempre con originalità di risultati: «Mentre sembro tenere le distanze, però, so di essere attento, e chi è attento si avvicina. […] Si potrebbe dire che io cerco di comunicare un calore che si avverte nel tempo, anche se non si percepisce subito».
    Comunicare. Ricorda Ezio Raimondi, in altro passo: «All'Università non mi è mai riuscito di fare una lezione seduto sulla cattedra: l'ho sempre fatta in piedi e se fossi stato in un'aula di scuola mi sarei mosso tra i banchi. Non mi riusciva di concepire un rapporto a sbarramento, in una sorta di gerarchia prestabilita, e meno che meno desideravo collocarmi in alto. Ho sempre preferito stare più in basso di coloro che ascoltano». Ritorno con la mente all'anno accademico 1960-61 quand'ero matricola al Magistero bolognese: Raimondi aveva allora poco più di 36 anni, essendo nato nel 1924. Lo accompagnava già la fama di fanciullo-prodigio (a livello europeo) della nostra storia della letteratura più seria. Il pienone delle sue lezioni sembrava ripetere quello che si trova descritto a proposito del professor Giosue Carducci. Ogni volta Raimondi recava con sé una pila di volumi che appariva altissima, una volta deposta alla sua sinistra sul primo banco dell'antica aula di via Zamboni; e che sembrava ridursi nelle sue dimensioni quando il professore la abbracciava al suo fianco, all'ingresso ed al termine del suo discorrere.
    La sua figura allampanata, il profilo acuto come quello di un asceta che prendeva luce dalla parole e calore dagli argomenti, avevano un effetto ipnotico sull'uditorio: il gesticolare del braccio destro, con quello sinistro rigorosamente indirizzato a placarsi nel cercare il libro necessario per la citazione utile all'argomento trattato, tracciava le coordinate di un pensiero che fluiva limpido, prendeva corpo in articolazioni sintattiche sempre più geometriche, con una chiarezza espositiva che era frutto di una consapevole dignità del maestro il quale sapeva bene essere quello il momento in cui tutto si gioca non nella sfida sapienzale, ma nella moralità della vita dell'intelletto.
    Non c'è pagina di Raimondi, in queste «Conversazioni», in cui non ritorni il tema della funzione etica della vita intellettuale, a rispecchiare un'esistenza spesa all'insegna del rispetto delle regole del gioco e dell'«assunzione di responsabilità», ben consapevole però che gli eventi esterni ci possono obbligare «ad aperture e a lacerazioni, a una sensibilità, per così dire, più virile insieme e commossa». Sono quei fatti che la sua generazione ha conosciuto sotto la specie delle «atrocità» e della «catastrofe», quando «la parola può anche sentirsi umiliata e mortificata, quando riconosce che può tradire se stessa».
    Come letterato, Ezio Raimondi ha nelle sue origini una particolarità che lo contraddistingue, e che identifichiamo in quegli «interessi filosofici» che lui avvertiva mancare ai suoi compagni dell'Università. Oggi, in tempo di pensiero debole e di totale oscuramento della dimensione filosofica sotto quasi tutte le latitudini, potrebbe apparire eccezionalmente solitaria questa sua caratteristica, ma così non è, se si ricorda il bisogno di indagine speculativa presente in quei giovani usciti allora dalla guerra, ai quali «cominciava ad aprirsi l'universo della vita culturale contemporanea»: «Era il senso di una pluralità che andava costruito, in cui bisognava riconoscere le distinzioni e ammettere le specificità, senza interpretazioni preordinate».
    Quegli «interessi filosofici» lo hanno sempre accompagnato nella sua ricerca critica ed anche nella pura dimensione esistenziale, come ci documentano le pagine che abbiamo sotto gli occhi, dove le idee si fanno realtà, dove l'esperienza singola assume un valore paradigmatico per conoscere tempo e modi in cui essa si è andata sviluppando nella compagnia degli uomini e nei silenzi delle biblioteche.
    E tra i personaggi che dalle biblioteche derivano il loro essere, che tra i libri hanno avuto il loro mito e forse anche la loro dannazione, non può mancare un particolare accenno ad uno scrittore al quale Raimondi ha dedicato un'analisi del tutto originale e continua, Renato Serra. Nel '38 Raimondi conosce un giovane tedesco nemmeno trentenne che «nell'atto di riflettere sulla guerra imminente e sull'incipiente tragedia tedesca, ritrovava nell'Esame di coscienza di Serra l'unico atteggiamento autentico che si deve prendere nei confronti della guerra» («Serra diceva che la guerra non cambia niente»): «In quel momento avevo come il segno concreto che l'Esame di Serra non apparteneva più soltanto alle polemiche nostre, tra razionalismo e irrazionalismo, con il dannunzianesimo e altro. Avevo la risposta di qualcuno che, nel momento in cui doveva prendere posizione dinanzi a un evento drammatico, sentiva che il nostro Serra, vent'anni prima, in una guerra in cui i tedeschi erano i nemici, aveva indicato una logica etica e intellettuale, di fronte all'epifania brutale della storia». Quel Serra così strenuamente legato a Cesena, rinviava «a una misura, a un respiro europei». Dalla 'lettura' di Serra, Raimondi ha tratto due libri che disegnano un poco anche il profilo della sua ricerca: «Il lettore di provincia» (1964) ed «Un europeo di provincia» (1993), indicandoci nella «logica etica e intellettuale» del rifiuto della guerra, una lezione che da Serra arriva utilmente sino a noi.


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