• San Michelino in Foro. Se ne riparla per le condizioni critiche in cui versa l'antica chiesa dei Templari riminesi.
    Riprendo una pagina di Riministoria, apparsa nel 2015, e pubblicata nella sezione dedicata a Galeotto di Pietramala.



    I Templari a Rimini, ieri ed oggi.
    La storia
    Della chiesa di San Michelino "i documenti iniziano a parlare a partire dalla prima metà del XII secolo, pur trattandosi di una struttura databile già dalla fine del V secolo o inizi del VI", scrive Alessandra Peroni nel suo saggio "I Templari di Romagna" (Studi Romagnoli, LXIII, 2012, pp. 525-548). Prosegue il suo testo (pp. 545-547): "La struttura si affacciava su quello che anticamente era il foro romano, attuale piazza Tre Martiri, dal quale venne progressivamente separata a partire dalla fine del XV secolo con la costruzione delle beccherie e poi ancora della torre dell’Orologio. Il primo documento attestante la presenza della chiesa risale al 1144: si tratta della Bolla del 21 maggio di papa Lucio II con la quale quest’ultimo, su richiesta del vescovo Rainerio, confermava al clero riminese suoi diritti e i suoi beni, elencando perciò le chiese del territorio". La presenza templare, precisa Peroni, è tuttavia attestata solo a partire dal 1257.
    "Il 7 agosto 1312 frate Atto ricevette la chiesa dal subsecutore Filippo, dopo aver ammonito Malatestino Malatesta il quale sembra avesse approfittato del congelamento dei beni templari per impossessarsene indebitamente; la chiesa passò dunque ai Giovanniti, ai quali rimase fino alla soppressione avvenuta nel 1806 e confermata poi nel 1809. Ad oggi è ancora visibile la parte absidale della struttura, all’interno della quale si conservano ancora tracce di affreschi pregiotteschi e settecenteschi".

    Il 5 maggio 1993, sotto l'intonaco dell'abside della chiesa, fu scoperto un affresco di scuola riminese della fine del XIII sec., con l'immagine di una santa con una pagnotta in mano (cfr. L. Imperio-E Valentini, Guida all'Italia dei Templari: gli insediamenti templari in Italia, Roma 1989, p. 307).

    Templari, retroscena
    "Una notizia impubblicabile", era il titolo di una lettera inviata nel 2006 ad una collega giornalista, spiegando che in un libro di prossima presentazione c'era in appendice un capitolo sui Templari, redatto da altro autore che si celava sotto lo pseudonimo di «Anonimo Riminese» e che era in realtà un cronista sportivo.
    L'esimio «Anonimo Riminese» non poteva firmarsi con il suo vero nome perché il materiale è «di dubbia provenienza». Che a me invece risulta molto chiara perché conosco il retroscena. Lo stesso autore del libro ha detto che la fonte di quel materiale è Nozzoli, morto sei anni prima.
    Aggiugevo nella lettera: "Si dà infatti il caso che Guido Nozzoli fosse mio zio. Quindi conosco i suoi lavori e chi frequentava casa soprattutto negli ultimi tempi, quando la malattia (demenza senile) ha permesso a qualcuno di "sottrargli" silenziosamente il materiale storico di cui con assoluta buona fede parlava e scriveva. L'«Anonimo Riminese» non poteva rivelarsi a rischio di pubblico sputtanamento".
    Fatto sta, spiegavo, che in casa non tornarono i conti delle carte presenti sulla scrivania di mio zio, al momento della scomparsa: mancava qualcosa che era stato sempre visto. "Forse riappare ora grazie alla sagacia conservativa dell'«Anonimo Riminese»? Una notizia impubblicabile, questa, come ho scritto all'inizio. Ma utile da conoscere per chi opera nel settore".
    Su internet il 26 maggio 2006 pubblicai questo testo, intitolato "A proposito di un libro riminese e dei Templari".
    Intervengo premettendo di non voler mescolare l'istanza personale che mi spinge con il necessario distacco che è doveroso quando si tratta un qualsiasi argomento in un mezzo pubblico come un blog.
    Alla base della mia pagina sta però anche un’inevitabile appendice pubblica della stessa istanza personale. Ovvero ciò di cui parlo, non è un puro accadimento legato al soggetto tirato in ballo nel libro di cui dirò, ma il «modus operandi» con cui il soggetto medesimo è stato riproposto all’opinione della città.
    Mi riferisco alla stampa di alcune pagine di fantasia storica relative ai Templari riminesi ed ai pretesi «frammenti di una leggenda di un anonimo riminese», nelle quali si legge un'attribuzione di paternità di ipotesi sull'argomento ad una persona che conosco benissimo, per essere stato un mio stretto congiunto.
    Che questi «frammenti» non possano avere pretese documentarie sotto il profilo storico lo suggerisce anche lo svarione iniziale in cui l'impeto favolistico spinge l'«anonimo riminese» ad ideare la scena nell'alba del 13 ottobre 1307 con in lontananza l'Abbazia di Scolca che «si vedeva appena» (p. 25).
    Credo che non si vedesse affatto, e non per colpa della poca luce, ma essendo l'Abbazia di Scolca stata edificata nel 1418 come, per altra mano, nello stesso testo si legge poco prima (p. 20). Ovvero ciò che sa la pagina di destra non sappia la pagina di sinistra.
    Embé, se si vuol scrivere di Storia occorrerebbe documentarsi (da parte dell'«anonimo», avvezzo evidentemente a tutt'altre cose) o necessiterebbe correggere da parte del curatore dell'opera.
    Lo svarione avrebbe potuto far rinchiudermi le pagine, ed amen. Per fortuna ho continuato a leggere sino a questa chicca di p. 29, dove (riassumo per brevità) si attribuisce ad un'unica mente l'ideazione dello studio-leggenda, la mente del «compianto giornalista Guido Nozzoli che di occultismo ed esoterismo era più di un appassionato cultore».
    Dandosi il caso che appunto Guido Nozzoli era fratello di mia madre, e che di questi argomenti (su opposte rive) lui ed io abbiamo attentamente discusso tante volte per cui sono al corrente di tutti i suoi studi e delle sue cosiddette ricerche, mi permetto di intervenire per demistificare un alone di mistero che si è creato in città attorno alla sua figura, e che è ben rispecchiato dalla citazione che ho appena riportato.
    In cui vedo riflettersi una di quelle ambiguità letterarie che possono fare la fortuna di un autore (nel caso, l'«anonimo» che ne narra) e la rovina di un personaggio (come «Guido Nozzoli che di occultismo ed esoterismo era più di un appassionato cultore»).
    La dolorosa situazione in cui venne a trovarsi per la perdita della figlia nel 1992, costituì per lui l'inconsapevole aggravamento della spinta verso interessi e studi precedenti che riguardavano l'alchìmia, senza che egli però potesse rendersi conto del contrasto che aveva vissuto tra la certezza che alcuni pseudo-ricercatori gli davano circa l'esistenza di sostanze naturali capaci di guarire qualsiasi malattia, ed il progredire inesorabile di quella della figlia stessa.
    Sono sicuro che la sofferenza di padre gli abbia procurato una specie di dissociazione tra la realtà ed il sogno, come prima avvisaglia della demenza senile che ha duramente caratterizzato gli ultimi anni della sua vita.
    La mia chiarezza e puntualità nel riferire questi particolari non va intesa come indelicatezza verso mio zio, ma come occasione necessaria per chiarire certe situazioni che in città vengono artatamente mistificate.
    Al contrario è abbastanza volgare l'accenno che ne fa l'«anonimo» quando parla di «un ormai vecchio, ma sempre fascinoso, Guido Nozzoli». Anche qui c'è una nascosta allusione in quell'«ormai vecchio», come nell'«era più di un appassionato cultore».
    Ecco perché ho parlato di ambiguità letterarie. C'è chi cerca il suo quarto d'ora di notorietà con questi mezzucci, senza dichiararsi, e soprattutto inventando aspetti di una persona fino a farne un personaggio che non risponde al vero, avendo la persona in questione alle sue spalle studi filosofici d'indirizzo marxistico mai ripudiati ed anzi confermati sino all'ultimo giorno nel loro risvolto di «prassi» politica.
    Lasciamo in pace i defunti, altrimenti creiamo fantasmi che non corrispondono al vero, e che soprattutto non possono correggere le fantasie dei posteri.

    Sul settimanale riminese "il Ponte" (2006, n. 21) pubblicai (sotto il titolo: "Il giornalista Nozzoli, i Templari e gli errori dall’anonimo riminese") questa lettera aperta.

    Caro direttore, chiedo la possibilità d'intervenire su queste colonne fuori dagli spazi normalmente concessi ad un cronista, per non mescolare l'istanza personale che mi spinge con il necessario distacco che è doveroso quando si tratta un qualsiasi argomento in un mezzo pubblico come un giornale. Alla base della mia richiesta sta però anche una inevitabile appendice pubblica della stessa istanza personale. Ovvero ciò di cui parlo, non è un puro accadimento legato al soggetto tirato in ballo nel libro di cui dirò, ma il «modus operandi» con cui il soggetto medesimo è stato riproposto all’opinione della città.
    Mi riferisco alla stampa di alcune pagine di fantasia storica relative ai Templari riminesi ed ai pretesi «frammenti di una leggenda di un anonimo riminese», nelle quali si legge un'attribuzione di paternità di ipotesi sull'argomento ad una persona che conosco benissimo, per essere stato un mio stretto congiunto.
    Che questi «frammenti» non possano avere pretese documentarie sotto il profilo storico lo suggerisce anche lo svarione iniziale in cui l'impeto favolistico spinge l'«anonimo riminese» ad ideare la scena nell'alba del 13 ottobre 1307 con in lontananza l'Abbazia di Scolca che «si vedeva appena» (p. 25).
    Credo che non si vedesse affatto, e non per colpa della poca luce, ma essendo l'Abbazia di Scolca stata edificata nel 1418 come, per altra mano, nello stesso testo si legge poco prima (p. 20). Ovvero ciò che sa la pagina di destra non sappia la pagina di sinistra. Embé, se si vuol scrivere di Storia occorrerebbe documentarsi (da parte dell'«anonimo», avvezzo evidentemente a tutt'altre cose) o necessiterebbe correggere da parte del curatore dell'opera.
    Lo svarione avrebbe potuto far rinchiudermi le pagine, ed amen. Per fortuna ho continuato a leggere sino a questa chicca di p. 29, dove (riassumo per brevità) si attribuisce ad un'unica mente l'ideazione dello studio-leggenda, la mente del «compianto giornalista Guido Nozzoli che di occultismo ed esoterismo era più di un appassionato cultore».
    Dandosi il caso che appunto Guido Nozzoli era fratello di mia madre, e che di questi argomenti (su opposte rive) lui ed io abbiamo attentamente discusso tante volte per cui sono al corrente di tutti i suoi studi e delle sue cosiddette ricerche, mi permetto di intervenire per demistificare un alone di mistero che si è creato in città attorno alla sua figura, e che è ben rispecchiato dalla citazione che ho appena riportato.
    In cui vedo riflettersi una di quelle ambiguità letterarie che possono fare la fortuna di un autore (nel caso, l'«anonimo» che ne narra) e la rovina di un personaggio (come «Guido Nozzoli che di occultismo ed esoterismo era più di un appassionato cultore»).
    La dolorosa situazione in cui venne a trovarsi per la perdita della figlia nel 1992, costituì per lui l'inconsapevole aggravamento della spinta verso interessi e studi precedenti che riguardavano l'alchìmia, senza che egli però potesse rendersi conto del contrasto che aveva vissuto tra la certezza che alcuni pseudo-ricercatori gli davano circa l'esistenza di sostanze naturali capaci di guarire qualsiasi malattia, ed il progredire inesorabile di quella della figlia stessa.
    Sono sicuro che la sofferenza di padre gli abbia procurato una specie di dissociazione tra la realtà ed il sogno, come prima avvisaglia della demenza senile che ha duramente caratterizzato gli ultimi anni della sua vita.
    La mia chiarezza e puntualità nel riferire questi particolari non va intesa come indelicatezza verso mio zio, ma come occasione necessaria per chiarire certe situazioni che in città vengono artatamente mistificate. Al contrario è abbastanza volgare l'accenno che ne fa l'«anonimo» quando parla di «un ormai vecchio, ma sempre fascinoso, Guido Nozzoli». Anche qui c'è una nascosta allusione in quell'«ormai vecchio», come nell'«era più di un appassionato cultore».
    Ecco perché ho parlato di ambiguità letterarie. C'è chi cerca il suo quarto d'ora di notorietà con questi mezzucci, senza dichiararsi, e soprattutto inventando aspetti di una persona fino a farne un personaggio che non risponde al vero, avendo la persona in questione alle sue spalle studi filosofici d'indirizzo marxistico mai ripudiati ed anzi confermati sino all'ultimo giorno nel loro risvolto di «prassi» politica.
    Lasciamo in pace i defunti, altrimenti creiamo fantasmi che non corrispondono al vero, e che soprattutto non possono correggere le fantasie dei posteri.
    Antonio Montanari


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    Anniversari, le pagine in Riministoria

     


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  • 1519, Ebrei e Rimini
    Lettera al "Corriere Romagna", 11 febbraio 2019

    Nel 1519, dietro istanza di frate Orso dei Minori di San Francesco, in obbedienza anche ai «decreti del Sacro Concilio», sono ripetuti gli ordini del segno distintivo impartiti il 13 aprile 1515.
    Quel giorno il Consiglio generale ha approvato all’unanimità l’adozione di tre provvedimenti: chiedere licenza al papa di bandire gli Israeliti; far loro pagare le spese per i soldati a piedi ed a cavallo «qui condotti, e trattenuti per guardia de gli Ebrei» medesimi; ed infine stabilire «che nell’avvenire volendo detti Ebrei continuare l’habitatione in questa Città, portassero il capello, o la beretta gialla».
    Per le donne il successivo 28 aprile è introdotta la regola di recare una benda gialla in fronte, facendo loro nel contempo divieto di porre sul capo i mantelli secondo (aggiungiamo noi) l’usanza comune della nostra popolazione di sesso femminile.
    Gli Ebrei richiedono di non essere costretti alla berretta ed alla benda gialle (secondo il sesso), ma di recare semplicemente un segnale sul mantello. (Il precedente più antico risale al 1432 quando Galeotto Roberto Malatesti aveva ottenuto da papa Eugenio IV un «breve» che introduceva per loro il «segno» di distinzione obbligatorio.) La città ricorre al papa «da cui fu commandato, o che quelli partissero da Rimini, overo obbedissero alla Città».
    I tre punti del 13 aprile 1515 hanno una premessa di tutti rispetto negli atti del Consiglio generale, che è però dimenticata dagli storici (Clementini prima e Carlo Tonini poi). In tale premessa si dice che gli Ebrei erano visti in città come «inimici».
    Carlo Tonini, nel riferire i provvedimenti del 13 aprile 1515, premette che «la città era in tumulto per cagione degli Ebrei». Riferisce che «fu proposto di sbandeggiarli, quali nemici della religione e promotori di scandali nel popolo», chiedendone licenza al pontefice. Conclude che «in causa di questo tumulto fu fatto venire un numero di cavalli di lieve armatura», la cui spesa «volevasi fosse fatta pagare agli Ebrei, alla cui difesa appunto erano venuti que’ militi».
    Il passo di Clementini sui soldati «condotti, e trattenuti per guardia degli Ebrei», ha portato Carlo Tonini a scrivere di un «tumulto per cagione degli Ebrei» (del quale non c’è traccia nel testo di Clementini). Tonini aggiunge che i militi erano stati chiamati in città a «difesa» degli Israeliti, e quindi da considerarsi a loro carico. Clementini aveva parlato di «guardia», termine il quale oltre che difesa (di una parte lesa) può significare anche controllo (e repressione di facinorosi…).
    Se il passo di Tonini sul «tumulto per cagione degli Ebrei» significa che erano stati essi a provocare una sommossa, tale affermazione non ha nessun legame logico con quella successiva, relativa all’intervento di truppa forestiera per proteggerli («alla cui difesa appunto erano venuti que’ militi»).
    Questo controsenso non ci sarebbe nella peggiore delle ipotesi, che cioè quel «per cagione degli Ebrei» significasse che la loro sola presenza in città (che li considerava «nemici») aveva provocato una rivolta popolare arginata dall’autorità manu militari per salvaguardare l’ordine pubblico.
    Nel 1548, Rimini anticipa il ghetto ebraico, poi istituito da papa Paolo IV il 17 luglio 1555.

    1. Storia degli Ebrei a Rimini.
    2. Rimini e gli Ebrei, archivio.

    Antonio Montanari


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  • Amarcord scolastici.

    Lettera al "Corriere Romagna", 29 gennaio 2019

    Egregio Direttore,
    ho apprezzato l'amarcord scolastico circa quell'apostrofo dimenticato che le procurò il giudizio negativo della prof. Zennari del mitico Liceo Classico Giulio Cesare di Rimini. Da dove uscivano notizie di un clima molto "punitivo" nei confronti degli allievi, molti dei quali emigravano (si era a metà degli anni Cinquanta) verso l'analogo istituto sammarinese.
    Da queste fughe nasceva in molti ragazzini la paura verso quella scuola, che spingeva a scegliere come alternativa, ad esempio, l'Istituto Magistrale Comunale. Dove però succedevano fatti analoghi. In prima classe, al terzo trimestre, la prof d'Italiano propose in un compito in classe questo titolo: "Quando piove".
    Il mio svolgimento non fu conformista tipo "Se arriva l'acqua dal cielo, apro l'ombrello", ma dichiaratamente rivoluzionario: "Oh che bello, così posso andare a fare un bel giro in bici sotto la pioggia". Morale della favola, la prof d'Italiano mi rimandò a settembre, seguita da quella di Matematica perché nella sua ora leggevo un meraviglioso quotidiano sportivo, e dalla collega di Francese a cui non riusciva gradita la mia perfetta pronuncia (appresa da mio padre) che si scontrava con la sua che sapeva troppo di dialetto romagnolo.
    In quarta Magistrale avemmo un insegnante di Latino che non lo sapeva, mentre restavamo affascinati dalle lezioni ciceroniane del Preside Ermenegildo Prosperi che arrivava talora per sostituire qualche docente. E che davanti alla nostra ignoranza non celava commenti pesanti, verso di noi.
    Il Latino che incontrai poi a Bologna, al Magistero con Elio Pasoli, può essere riassunto con le recenti parole del prof. Ivano Dionigi, ex rettore felsineo: quel docente non avrebbe dato un 30 nemmeno a Cicerone. Ricordo che, in sede di esame, il Pasoli usava lanciare per aria il libretto con urla laceranti anche se la studentessa che interrogava era in avanzato stato di gravidanza. Gli assistenti per farsi belli, bocciavano a tutto spiano. Allo scritto di Latino la mia traduzione fu annientata. Un assistente di Latino ignorava che "nulla sapeva delle nostre cose" equivale a "non sapeva nulla...". Per cui segnava errore nello scritto, adducendo spiegazioni folli. Alla fine nella discussione che ebbi fuori esame con lui, dovette ammettere che tutte le cose che aveva segnato come errori invece andavano bene.
    Eravamo a metà degli anni Sessanta.
    Antonio Montanari
    Altre notizie in Viva la squola. (3)


    2018
    Amarcord la scuola


    Ho frequentato l'Istituto Magistrale alla fine degli anni Cinquanta. Allora la lotta per la supremazia studentesca era affidata in città ai duelli pedagogici di Ragioneria e Classico, l'un contro l'altro armati nella pretesa di sfornare «la meglio gioventù».
    I loro presidi (Remigio Pian ed Arduino Olivieri) rappresentavano con onestà un mondo sgretolato dalla guerra: lo vivevano ancora dentro l'animo, ma non esisteva più. Si legga il regolamento dettato da Olivieri in quegli anni: sembra uscito dalla penna di qualche istitutore della Restaurazione o della Controriforma.
    Alcuni dei miei docenti sono stati anche insegnanti nel «Giulio Cesare», come il preside Ermenegildo Prosperi ed i professori Campagna e Micheli.
    Prosperi, al ritorno dalla vacanze estive, pretendeva che sapessimo il latino dell'anno prima. Ci affascinava però con le sue lezioni di storia del '900, quando sostituiva qualche insegnante assente.
    Campagna in terza magistrale ci aprì nuovi orizzonti. La letteratura mi piaceva, lui citava continuamente Francesco De Sanctis, io ne lessi di corsa la storia della letteratura nei due volumetti editi da Feltrinelli. Non amava molto la Storia. Nel libro di testo usato allora, ho ancora i «no» relativi ad importanti argomenti che ci fece 'saltare'. Era gustosamente polemico.
    Come tema ci propose una volta di sceneggiare un episodio dantesco. Mi cimentai con quello di Paolo e Francesca. Al momento del «disiato riso» e prima del bacio, facevo congiungere le loro mani. L'idea non piacque a Campagna. Neppure quando, guarda caso, la trovai realizzata in un carosello televisivo.
    Micheli aveva una capacità di esposizione eccezionale, ma non sapeva mantenere la disciplina. Oltre il primo banco, non si udiva parola del suo brillante eloquio. Non fece mai lezione di Geografia, prima dell'Esame di Abilitazione, per pura precauzione, mi premurai di guardare l'indice del testo.
    La vita scolastica ha uno strano destino. I nostri ricordi ci rimandano spesso non alla sapienza che ci ha trasmesso od ha creduto di fornirci, quanto alle nostre follie studentesche. Ecco perché più della dottrina di un prof, resta la memoria di un suo particolare esistenziale. Come in questa citazione fatta da un giornaletto del «Giulio Cesare»: «Dato un basco, trovare il preside Ceccarelli».
    Se io non sono riuscito mai a capire bene la Matematica, lo debbo ad una professoressa detta Cerbero, conosciuta anche come «DDT» perché non faceva volare una mosca. Terribile, distaccata, gelida, saliva (lei piccolina) su di una cattedra altissima, e ci scrutava con la noia di uno squartatore di pollastri, infastidito dall'odore delle interiora. Dagli occhi traspariva un qualcosa d'indefinibile, come certi gelati fatti in casa, senza gusto e senz'anima.
    La Chimica non l'ho mai assimilata grazie al carosello di nove supplenti succedutesi in sei mesi, e poi sparite dalla circolazione, tutte in congedo per maternità.
    In Italiano, ho rimediato un quattro, quando scrissi che mi piaceva correre in bicicletta sotto la pioggia. Ai nostri tempi non c'era libertà di pensiero. Alla prof. di Lettere volevo regalare una copia della scespiriana «Bisbetica domata», ma non consideravo l'aggettivo corrispondente alla realtà.
    La scuola era come l'antico Olimpo: nella parte di Giove tonante, c'era il preside, mitico eroe della burocrazia e protagonista di mille omeriche battaglie contro merende, sigarette, camicie senza cravatte, cravatte senza giacche e giacche senza bottoni.
    Minacciava una sua circolare: «È vietato fumare nel raggio di 300 metri dalle aule». Fu così che, per puro fatto urbanistico, sotto la sua giurisdizione scolastica finirono il municipio, l'ospedale ed alcune banche.
    Mi iscrissi alle Magistrali, conseguendo nel primo anno un risultato pressoché disastroso. Confermato nella mia antipatia verso la Matematica, fui rimandato ad ottobre, come si diceva dimenticando che gli esami di seconda sessione si svolgevano a settembre. Pagavo pegno per la lettura sottobanco della «Gazzetta dello Sport» in quelle noiosissime ore trascorse in un silenzio surreale che aveva come unica alternativa un ben più compromettente sonnellino. Dopo quell'estate trascorsa chino sui libri, smisi di leggere i quotidiani sportivi.
    Ma la Matematica non fu sola. Dovetti riparare non so perché in Francese, nonostante una discreta pronuncia (insolita in città, dove l'influsso dialettale è deleterio), grazie alla capacità linguistica di mio padre il quale parlava correntemente anche il Tedesco (che però non m'insegnò mai).
    Non c'è due senza tre: nell'ultimo trimestre mi rovinai (o per meglio dire, mi fu rovinata) la più che sufficiente media in Italiano. Nel compito in classe conclusivo scelsi il titolo che diceva semplicemente: «Quando piove». Ispirandomi al proverbiale svolgimento del Pierino delle barzellette, che dovendo trattare di «Quando passa il treno» condensò i suoi pensieri in un laconico: «Mi sposto», mi sarei forse salvato se avessi scritto soltanto: «Apro l'ombrello». Invece mi dedicai con aperta vena confidenziale a spiegare quanto fosse «bello» andare in bicicletta sotto l'acqua.
    Apriti cielo, fu proprio il caso di dire nel fatidico giorno della pubblica correzione dei compiti quando ognuno di noi veniva messo alla berlina se di sesso maschile, od elogiato se apparteneva alla eletta schiera delle femmine che chissà perché sapevano fare tutto, e se anche non capivano granché trovavano in genere completa comprensione da parte delle insegnanti, e anche da parte degli insegnanti (maschi) nei casi rari e particolari in cui alla capacità subentrassero esclusivamente simpatia o bellezza.
    Pure in seconda ripassai a settembre per Italiano perché la nuova professoressa non gradiva le mie spiegazioni letterarie.
    Trascorsi l'estate ad esercitarmi con un amico di mio padre, il prof. Nevio Matteini, noto scrittore e studioso di storia riminese. Alla lettura della prima prova scritta che mi aveva assegnata (i suoi titoli erano chiaramente liceali, ovvero non facili), ebbi la soddisfazione di sentirmi dire: «Ma lei sa scrivere». Le cose filarono lisce in terza e quarta, soprattutto in Italiano.
    In terza il prof. Campagna s'accorse che c'erano allievi bravi allo scritto ma che poi facevano scena muta all'orale. Ideò un tranello, un compito in classe all'improvviso in cui i furbi vennero scoperti. (Uno di loro era molto organizzato. Per lo scritto di Latino portava a scuola pagine e pagine di versioni già tradotte. Una volta si smascherò da solo non essendosi accorto che il testo datoci dalla insegnante era più breve di quello che ricopiò lui.)
    Avevamo il turno pomeridiano. Con la terza che andava al mattino, e quello stesso giorno aveva affrontato pure essa il compito in classe, il prof. Campagna s'era vantato del tranello preparato. Qualche compagno di lotta e di sventura ci avvertì del progetto punitivo e soprattutto dei temi assegnati, che sarebbero stati gli stessi anche per noi. In pochi minuti chi sapeva qualcosa di letteratura poté documentarsi su argomenti di una pignoleria terrificante, e fare ottima figura con grande soddisfazione anche del docente.
    In terza e quarta magistrale ho avuto due ottimi insegnanti di Lettere. Tutti presi dalla Letteratura trascuravano con spaventosa impudicizia l'insegnamento della Storia.
    Conservo ancora i libri di quest'ultima materia: il volume del glorioso Saitta di terza, in certi capitoli ha l'annotazione di mano mia (e volontà del docente), "Saltare".
    Riaprendoli adesso mi vergogno non di quella scritta ma del taglio, che ci privava di antefatti e punti di collegamento.
    A quello che la scuola non poteva o non voleva dire, cercavo timidamente di porre riparo leggendo libri e giornali. La domenica era il giorno sacro, con il pomeriggio tutto dedicato a sfogliare carta.
    Non mi piaceva andare a ballare come facevano molti compagni di scuola, preferivo leggere. Non so se sia servito a qualcosa. Se è servito, il merito va soltanto a chi scriveva su quei giornali, a chi li cucinava bene o male secondo gusti e tendenze dell'epoca, a chi tutto sommato ci apriva la mente per capire qualcosa del mondo.
    Quando frequentavo nella primavera del 1960 la quarta magistrale, comperai nel mitico negozio dei fratelli Sarti che ne furono i primi importatori, un completo di tela di jeans, giacca e calzoni, che feci debuttare in un tranquillo pomeriggio a scuola. Il preside mi vide all'ingresso, mi tenne d'occhio, e durante la ricreazione venne ad accertarsi della mia tenuta nel corridoio vicino alla nostra aula. Impassibile, mi fece un giro attorno guardando con attenzione (soltanto curiosità e nessuno scandalo, immagino) alla stoffa che indossavo. Racconto l'episodio per spiegare che bastava poco per essere messi sotto osservazione e passare per «gioventù bruciata» come si diceva allora ripetendo il titolo di un celebre film del 1955 con James Dean.



    Queste righe raccolgono cose da me scritte in varie sedi, dal settimanale riminese " il Ponte" al web.


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  • Riccione, il caso Jan Palach.
    Mia lettera su "Corriere Romagna"
    .

    Il "Corriere Romagna" di oggi 17 gennaio 2019 ospita questa mia lettera.

    Riccione ha cancellano
    Jan Palach

    La pagina speciale apparsa sulla "Stampa" di martedì 15, per i 50 anni dal "rogo di Jan Palach", suicidatosi "contro l'invasione dei tank russi", mi fa ricordare quanto accaduto a Riccione nel 2008, quando fu cancellata la via dedicata a quel giovane.
    Era stata voluta da una delibera di quel Comune del 9 febbraio 1970, approvata dalla Prefettura il 24 aprile 1975 (sì: 1975).
    Il 25 novembre 2008 la commissione comunale per la toponomastica si rimangia quanto deliberato l'8 settembre 1969: via Jan Palach ridiventa via Flaminia.
    Antonio Montanari
    Rimini

    ARCHIVIO

     

    Ho già ricordato in una antologia de "il Rimino" sul web, la storia riccionese del 2008 quando fu cancellata la "via Jan Palach".
    La ripropongo in questi tempi confusi dei nostri giorni, perché è istruttiva, richiamandomi a quanto precisai l'11 gennaio 2009: la decisione dell'intitolazione fu presa l'8 settembre 1969 dall'apposita commissione comunale per la toponomastica. Il 25 novembre la commissione stessa, con alcuni componenti cambiati, si rimangia quanto deliberato. Il Consiglio comunale verbalizza il tutto il 9 febbraio 1970.
    La Giunta aveva bocciato (informalmente e sottobanco) la prima proposta. Questo atteggiamento "privato" della Giunta comunale spiega la retromarcia della commissione del 25 novembre rispetto alla decisione dell'8 settembre 1969.
    Piccolo particolare che poteva fungere da alibi per spiegare la vicenda della retromarcia. La via Palach 'rubava' il nome alla Flaminia! Immaginate se il mutamento del nome bimillenario di una strada romana, poteva essere approvato.
    Infine, la delibera comunale del 9 febbraio 1970, affissa il 13 febbraio 1970 al pubblico ed inviata alla Prefettura, fu approvata da questa il 24 aprile 1975, dopo i pareri favorevoli espressi dalla Soprintendenza ai monumenti e dalla Deputazione di Storia Patria. Erano passati cinque anni. Diconsi cinque.

    Il 31 maggio 2008 intitolai "Stalinisti a Riccione" sul mio blog de "La Stampa" di Torino la notizia di cui stiamo parlando: "La Commissione Toponomastica (1969) aveva approvato la proposta di intitolare una via a Jan Palach. Ma la Giunta comunale di Riccione l'ha bocciata! Ovvero il trionfo dello stalinismo puro e duro".
    Il 9 settembre dello stesso 2008, sempre nel blog de "La Stampa", ricordavo che una mia lettera su questo tema riccionese era stata bocciata da un quotidiano locale: "A Riccione è stata cancellata la via Jan Palach, il martire politico del 1969, uccisosi per protestare contro i sovietici. Potresti informati sul "dove come quando e perché" ciò è accaduto?"."
    Palach è il martire politico del 1969, uccisosi per protestare contro i sovietici.
    Altre notizie sul tema sono in questo articolo del 2010, apparso su "il Ponte", settimanale di Rimini.

    Riccione, non basta la parola
    Rodolfo Francesconi racconta tempo e spazio tra Romagna e Marche
    A Riccione nella Romagna Rodolfo Francesconi dedica un ricco volume di ricerca storica (476 pagg., Raffaelli editore Rimini). Spiega nomi e caratteri geografici della città e del suo territorio, collegato a quelli che lo circondano anche dalla parte marchigiana. Riccione nella Romagna è soltanto la seconda parte del titolo, che inizia con ”L'intelligenza del luogo”. Ovvero un viaggio nel tempo, come osserva Piero Meldini nell'introduzione, alimentato “da una curiosità intellettuale onnivora”.
    Si parte dalla preistoria e si arriva al 2008, quando Riccione onora un suo figlio illustre, Igino Righetti, ben noto in tutt'Italia e non soltanto a Rimini, riservandogli una piazzetta. E cancella il nome di don Emilio Campidelli, che era stato posto ad un viale. Don Campidelli era stato cappellano a San Lorenzino nella parrocchia retta da don Giovanni Montali, e poi suo successore dal 1959 al 1981. Quando gli subentrò sino al 1994 il primo direttore de il Ponte, don Piergiorgio Terenzi.
    Una curiosità del 1969. Arriva in Consiglio comunale la proposta (8.9.) di intitolare la via Flaminia al polacco Jan Palach, il giovane uccisosi a Praga per protestare contro i sovietici che avevano invaso la sua patria. Il 25.11. via Jan Palach ridiventa via Flaminia (pp. 420-422). Ovvero il trionfo dello stalinismo puro e duro.
    Il volume di Francesconi colloca ogni notizia locale nel contesto nazionale od internazionale. Ad esempio, ampio spazio è dato alla rivoluzione francese per meglio comprendere quanto allora successe a Rimini e dintorni.
    Circa i nomi delle località, consideriamo il San Lorenzino citato, ovvero San Lorenzo in Strada. In Romagna, spiega Francesconi, di San Lorenzo con qualche aggiunta ce ne sono altri 12, mentre quelli “lisci” sono 6. Altri casi hanno alle spalle storie più complesse. Un solo caso. Dai “curopolates”, i bizantini addetti al palazzo, deriva Corpolò.
    Il progetto del libro è spiegato dall'autore con la volontà di raccogliere nella mappa dei nomi lo spazio dei luoghi e lo sviluppo della storia nel tempo. È un'idea molto moderna. Vi ritroviamo riflessi il gusto vertiginoso per le liste di Umberto Eco, e le più moderne teorie di chi propone di leggere il tempo nello spazio. Per questi due elementi, molti lettori e non soltanto quelli non specializzati, dovranno essere grati a Francesconi per la sua fatica.
    Ovviamente l'autore non è responsabile della bontà di tutte le citazioni. In certi casi, ad esempio sulla storia medievale, preferiamo ricordare vecchie letture (come quelle di Antonio Carile, 1975), meno portate a semplificazioni fuorvianti.
    5 febbraio 2010
    Fonte di questa pagina

    Antonio Montanari


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