• Era il 1961. Storie antiche di giornalismo riminese.


    Un amarcord veloce. Avevo 19 anni nel 1961. Come scrissi anni fa, piombò a Rimini, con lussuosa sede al grattacielo, tale Carlo de' Siena, con un settimanale ("Europa flash"), che scomparve dopo pochi numeri: era l'imitazione del noto rotocalco "Oggi". Si presentava come un grande esperto, ma non conosceva neppure le telescriventi.
    Credo, per notizie molto successive, che quell'impresa editoriale fosse più legata al controllo della città che era base militare Nato, che ad un'idea di fare qualcosa di nuovo nel panorama giornalistico nazionale.

    Una quindicina d'anni dopo aiutai un amico a sopravvivere ad una carognata estrema ricevuta da un quotidiano, collaborando ad un suo foglio locale. Ad un certo punto anche per noi arrivò una lussuosa sede (non ne avevamo mai avuta una, tranne un tavolo in tipografia), avendo ricevuto un contratto editoriale: la pagina fissa di un centro studi giuridico-economici. Che poi (molti anni dopo) scoprii essere una emanazione dei "servizi", curata da un collega che avrebbe fatta brillante carriera universitaria. Transitando dalla estrema destra molto surriscaldata di quegli anni. E godendo di un appoggio famigliare a sua volta basato sulla massoneria bolognese-romagnola.

    ARCHIVIO
    Dal mio blog politico sulla Stampa on line del 24/12/2007.
    Caro Carlino (e tutto il resto)
    Mi hanno detto che il «Carlino» ha festeggiato i 50 anni della sua pagina riminese. Auguri.
    Sono affezionato alla redazione del 1960-62, quando da studentello vi feci un apprendistato fondamentale sotto la guida del capo-pagina prof. Amedeo Montemaggi, un giornalista di vaglia e soprattutto un maestro di cronaca dalla rara efficacia e intelligenza delle cose.
    L'idea di riempire le giornate con un diversivo allo studio universitario, mi venne appena conclusa la sessione d'esami dell'abilitazione magistrale (la nostra non era allora chiamata maturità).
    Dissi a mio padre se mi poteva presentare a Montemaggi che lo conosceva bene.
    Una mattina di fine luglio andammo mio padre ed io in piazza Cavour, ed incontrammo Montemaggi proprio sulla porta del palazzo dove ha tuttora la sede il «Carlino» riminese.
    Montenaggi Dopo i convenevoli di rito, Montemaggi (foto) mi disse una cosa che ho sempre conservato in memoria come prima regola del lavoro di cronista: «Bisogna imparare a lavorare di corsa. Ieri sera ho fatto in tre quarti d'ora un pezzo di due cartelle e mezzo per l'edizione nazionale».
    In quella regola c'è tutto quanto è utile ai cronisti (e anche ai blogger) in certi momenti. Ovvero concentrarsi sull'argomento, saper tirare fuori tutto quello che serve, scrivere, rileggere e spedire...
    Allora non c'erano né telescriventi né computer, si andava col «fuori sacco» in stazione o al massimo per le cose urgentissime si ricorreva telefono. Che andava però usato con parsimonia per non essere sgridati dall'amministratore bolognese, celebre, temuto e tiratissimo.
    Il vice di Montemaggi (che cominciava allora le sue ricerche sulla Linea gotica) era Gianni Bezzi, studente in legge, bravo, intelligente e soprattutto amico, nell'impostarmi sul lavoro di ricerca della notizia e nella stesura dei breve testi di cronaca. Bezzi ha poi lavorato a Roma al «Corriere dello Sport».
    Corrispondente da Riccione era Duilio Cavalli, maestro elementare, e conoscitore dei segreti dello sport, materia affidata per il calcio al celebre Marino Ferri. Mentre «Isi», Isidoro Lanari, curava le recensione cinematografiche.
    E poi c'erano i padri nobili del giornalismo riminese che frequentavano la nostra redazione. O che collaboravano allo stesso «Carlino». Giulio Cesare Mengozzi, antico amico della mia famiglia, sostituiva Montemaggi durante le sue ferie. Luigi Pasquini, una celebrità che non si fece mai monumento di se stesso, ed ebbe sempre parole di incoraggiamento con noi giovani. Ai quali Flavio Lombardini offrì di collaborare alle sue iniziative editoriali.
    C'era poi la simpatica e discreta presenza di Davide Minghini, il fotoreporter, l'unico che aveva un'auto con cui andare sul luogo di fatti e fattacci. Arrivò ad un certo punto Marian Urbani, il cui marito gestiva l'agenzia di pubblicità del «Carlino». Si mise a fare la simpatica imitazione di Elsa Maxvell, la cronista delle dive americane. Dove c'era mondanità c'era Marian che le ragazze in carne corteggiavano per avere appoggi in qualche concorso di bellezza....
    C'era poi un collega giovane come me, che era figlio di un poliziotto, e che andava in commissariato a rubare le foto degli arrestati dalle scrivanie dei colleghi di suo padre. E noi le dovevamo restituire...
    C'era una bellissima ragazza, Nicoletta, che da allora non ho più rivisto a Rimini. Ricordo una simpatica serata che Gianni ed io trascorremmo con lei ed una sua amica inglese al concorso ippico di Marina centro. Cercavamo di insegnare alla giovane d'Oltremanica tutte le espressioni più strane del parlare corrente italiano, al limite di quello che il perbenismo di allora poteva considerare turpiloquio. Ma la frase più ardita era semplicemente: «Ma va a magnà er sapone».
    Leggo sul Carlino-on line le parole di Piero Meldini per i 50 anni dell'edizione riminese: «Chiunque sapesse tenere in mano una penna (tenerla bene) è passato dal Carlino».
    Posso di dire di aver fatto con Montemaggi, Bezzi e Cavalli una gavetta che mi è servita sempre. Forse appartengo ad una generazione che è consapevole dei debiti verso i maestri che ha avuto. Forse ho la fortuna di essere consapevole dei miei molti limiti per poter riconoscere l'aiuto ricevuto nel miglioramento dalle persone con cui sono venuto a contatto allora e poi. Fatto sta che quei due anni nel «Carlino» per me sono stati fondamentali.
    Studio e passione per argomenti diversi hanno la radice in quella curiosità che mi insegnarono essere la prima dote di un cronista.

    Gianni Bezzi scomparve giovedì 17 febbraio 2000, a 60 anni.
    Lo ricordai sul web con queste righe.
    Aveva debuttato al "Carlino" riminese, come vice-capopagina. Ma uno scherzetto fattogli mentre doveva essere assunto a Bologna nella redazione centrale, lo ha buttato sulla strada.
    Ha diretto poi a Rimini il periodico "Il Corso". Nel 1969 è stato assunto a Roma al "Corriere dello Sport", dove è rimasto fino alla pensione. Ha scritto anche un volume su Renzo Pasolini ed ha curato, lo scorso anno, un libro sullo sport riminese nel XX secolo.
    Persona buona ed onesta, professionista serio, amico di una lontana giovinezza nel mio debutto giornalistico, lo ricordo e ne piango la scomparsa con animo rattristato. E queste parole possano farlo conoscere anche fuori della Rimini astiosa dove venne tradito e ferito dal disonesto comportamento di chi volle ostacolargli una carriera meritata per la correttezza umana e professionale.
    Sul settimanale Il Ponte pubblicai questo articolo, il mio Tama 749.
    Ciao, Gianni
    Quando qualcuno si metterà a scrivere con completezza ed onestamente una storia del giornalismo riminese di questi ultimi cinquant'anni, dovrà dedicare un capitolo a Gianni Bezzi, appena scomparso a Roma, dove aveva lavorato per tre decenni al "Corriere dello Sport" come cronista ed inviato speciale.
    Lo ricordo con infinito dolore. Ho perso un amico onesto, buono, corretto.
    Ci eravamo conosciuti nel 1960 alla redazione riminese del "Carlino", dove guidava con serenità e buon gusto il lavoro di un gruppo di giovani, molti dei quali poi hanno cambiato strada, chi ora è architetto, chi docente universitario.
    C'era uno di noi, figlio di un questurino, che a volte voleva fare degli scoop e prelevava in Commissariato le foto degli arrestati, poi arrivava una telefonata e noi le dovevamo restituire.
    Gianni amava lo sport che aveva in Marino Ferri la penna-principe del "Carlino". Fece il corrispondente locale del "Corriere dello Sport". Aveva un linguaggio asciutto, il senso della notizia, era insomma bravo.
    Un bel giorno, mentre frequentava già di sera la redazione bolognese del "Carlino", dopo aver lavorato al mattino in quella di Rimini, e mentre gli si prospettava un trasferimento sotto le due torri, successe questo, come si ascoltò a Palazzo di Giustizia: risultò che lui in ufficio c'era andato così, per sport.
    Diresse poi un nuovo giornale "Il Corso", che usciva ogni dieci giorni. Mi chiamò, affidandomi una pagina letteraria (che battezzai "Libri uomini idee", rubando il titolo ad una rubrica del "Politecnico" di Vittorini), ed anche una rubrica di costume ("Controcorrente") che firmavo come Luca Ramin.
    Fu un sodalizio di lavoro intenso ed appassionato. Mi nominò persino redattore-capo, e credo che sia stato l'unico errore della sua vita.
    Per Marian Urbani inventai una sezione definita "Bel mondo", nel tamburino redazionale. La cosa fece andare su tutte le furie il giornale del Pci che ci dava dei "fascisti" ogni settimana, avvantaggiandosi su di noi che, come ho detto, andavamo in edicola solo tre volte al mese. E non sempre.
    Nel gennaio del '67 il nevone ci fece saltare un numero. Due anni dopo, Gianni fu assunto a Roma.
    Queste mie misere parole possano, in questa città di smemorati, ricordare un giornalista che proprio a Rimini ha dedicato la sua ultima fatica, un libro sullo sport del '900. Ciao, Gianni.

    L'anno scorso è scomparso Silvano Cardellini, anche lui celebre firma del «Carlino». Oggi lo celebrano, ma non fu sempre trattato bene da quel giornale. Allora osservai in ricordo del caro amico:
    «Ti hanno costretto a fare il cronista sino ad ieri, non so per colpa di chi, forse per il fatto che (come hai scritto tu) «normali non siamo» o non sono pure quelli di fuori (leggi: Bologna). Se avessi diretto un giornale cittadino, avresti avuto il gusto di alimentare le polemiche, che sono il sale del pettegolezzo, anche se esse stanno ben lontane dall'informazione della quale a Rimini non frega nulla a nessuno».

    Fuori tema, in apparenza. Rimini, il giornalismo, il sottoscritto e "La Stampa", con mia gratitudine ad Anna Masera. Da il Rimino 157, anno XI. Gennaio 2009.

    Antonio Montanari
    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA


    votre commentaire
  • A Vittorio Emiliani, «Romagnoli & Romagnolacci», come recita il titolo del suo ultimo libro (Minerva ed., Bologna), debbono essere grati per questa sua enciclopedia del ventesimo secolo. Nella quale Rimini ha un ruolo non secondario. A partire proprio dall'introduzione, dove Emiliani ci ricorda (p. 5) un aspetto spesso dimenticato o cancellato per convenienza diciamo così politica, il rispetto del passato.
    Emiliani rimanda al piano regolatore di Rimini al quale, alla fine degli anni '60, «ci si aggrappava per scongiurare la speculazione (un nuovo supermarket) che la Curia intendeva autorizzare nel palazzo dell'antico Seminario, a lato nientemeno del magico Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti».
    Come, nella stessa zona, quel passato sia stato poi violentato dai politici, lo dimostra ciò che ancor oggi si può vedere ponendosi accanto alla fiancata a mare del Mercato coperto, e guardando verso Est (il Nord è al porto...): ovvero l'inserimento volgare e becero del cemento moderno all'interno dei muri trecenteschi del convento francescano. Dove ebbe sede la prima biblioteca pubblica d'Italia (1430).
    E poi andate a controllare qualche vecchio volume che riproduca la facciata della chiesa di san Francesco, alla sinistra di quella del Tempio, oggi orribile prospetto di vetro e cemento. Esisteva ancora negli anni Cinquanta, quando al Tempio si teneva la Sagra musicale malatestiana, la cui prima edizione è del 1950, anno della riconsacrazione della chiesa dopo i restauri postbellici.
    Un'altra tirata d'orecchi, Emiliani la riserva a Rimini a p. 111 dove la definisce «strana città che la monocultura turistica esasperata ha letteralmente stravolto».
    E pure qui il rinvio è ad una questione edilizia, il rifacimento del teatro in piazza Cavour con un progetto poi ritirato dopo esser stato definito «culone». A questo progetto Emiliani collega «l'ottusità dimostrata da tutta una serie di amministratori riminesi» (p. 112). Non gli si può dare torto.

    Antonio Montanari
    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA


    votre commentaire
  • Turismo ieri ed oggi.
    Rimini, una vocazione da rispettare.

    L'intervento di Giorgio Montanari sulle «varie tipologie vacanziere» («Corriere di Romagna» del 21.07) mette a fuoco aspetti fondamentali del nostro turismo, che riguardano ciò che un tempo si chiamava la vocazione delle località balneari. Purtroppo, negli ultimi decenni, si è passati dallo sviluppo di quella vocazione, storicamente consolidata, all'invenzione di modelli miseramente falliti.
    A Rimini si è tentato di sostituire la città del mare con quella della notte. Successivamente hanno meditato sul «modello Dubai», con grattacieli in riva al mare, per un futuro radioso di cemento che minacciava di cancellare la fisionomia delle nostre coste e della nostra cultura. La crisi economica, mondiale prima e nazionale poi, ha messo in ginocchio, anche a causa di altri fattori come quelli elegantemente detti malavitosi, un sistema economico che era frutto del sacrificio di tante persone che l'avevano creato, garantendo un'occupazione stagionale invidiata dal resto d'Italia.
    Per Rimini tutto ciò è gelosamente simboleggiato dalle ruspe del TRC che, nella «zona Lagomaggio», hanno demolito pezzi di case costruite negli anni del boom con tanti sacrifici, quando la camera da letto era data in affitto, e tutta la famiglia si trasferiva in un timido e ristretto garage.
    Oggi così va il mondo. Dimenticare il passato permette di ipotizzare che Rimini-città non debba essere sviluppata come luogo turistico. Essa non è soltanto un'appendice fondamentale della marina. Perché la città protegge e garantisce la marina.
    Nessuno vuol voltare le spalle al mare: si tranquillizzi il sindaco di Rimini, intervenuto il 18 luglio scorso («Corriere di Romagna»). Promettere nuove fogne non è un'impresa eroica, né un dono per interventi soprannaturali. Si tratta di ordinaria amministrazione.
    Molto efficace lo slogan propostoci dal sindaco: «Da città sul mare a città di mare». Ma in sostanza il discorso non cambia. Il mare non vive senza una città dietro di sé, che diventa un valore aggiunto per un turismo consapevole che esso, come tutta la vita comunitaria, non è un «credere, obbedire, combattere» di tragica memoria.
    Ma, come per la cultura, è confronto e dialogo, dove nessuno può pretendere di avere sempre ragione. E ciò vale per chi rappresenta la «Cosa pubblica» e per chi agisce in nome del «Privato», che mai è stato un'opera caritatevole vocata alla perdita dei soldi investiti. Come ci si vuol fare credere ora, per certe situazioni in crisi o disperate, nonostante proclami di futuri bilanci positivi.
    La «zona Lagomaggio» violentata dal TRC è proprio il simbolo all'incontrario di quella «città di mare» a cui pensa il sindaco di Rimini nell'articolo del 18 luglio. Ma come si fa a conciliare il suo programma con i fatti che l'Amministrazione comunale di Rimini approva e condivide, anche se smentiscono quel programma? Il TRC non è un'opinione, è una dura realtà.
    I ruderi di Palazzo Lettimi in pieno centro, invece di essere utilizzati come ambiente «parigino» (definizione ufficiale del Comune) per recite o concerti, dovrebbero diventare un luogo della memoria, un archivio ben sistemato e protetto di immagini della città e del suo mare, a 70 anni dalla Liberazione di Rimini e dalla fine di quel dramma che fu la guerra che rase al suolo tutta la città.

    Antonio Montanari
    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA


    votre commentaire
  • In ricordo di Ezio Raimondi, scomparso ieri, pubblico questo vecchio articolo.

    Ezio Raimondi, le confessioni di un letterato

    Il suo «esame di coscienza» ripropone la lezione di Renato Serra, «europeo di provincia»
    Ezio Raimondi è figura, nel mondo della cultura e dell'Università, che ormai appartiene alla storia. Il suo ruolo come docente, scrittore e studioso della letteratura è definitivamente certificato da una serie imponente di opere, da un'attività intensa e continua. Chi lo conosce, nell'incontrarlo idealmente in queste «Conversazioni» che Davide Rondoni ha appena pubblicato con Guaraldi, non può non provare un sentimento fatto di molteplici sfumature: all'ammirazione ed alla simpatia verso l'intellettuale raffinato e sempre attento alle ragioni di chi gli si avvicina, si unisce la commozione davanti ad un racconto che svela particolari nascosti, intimi, di una biografia per tanti versi esemplare.
    «Io vengo da una famiglia popolare»: è l'inizio di queste pagine, che dovremmo prendere con l'attenzione alla quale lui ci ha abituato sia nelle lezioni accademiche sia nelle analisi testuali, per cercare di capire ciò che della sua esperienza umana è diventato non soltanto, qui ed ora, un semplice motivo di ricordanza, un gesto abituale della memoria od un riflesso condizionato dell'intelletto, quanto soprattutto ed essenzialmente un atteggiamento morale, un canone esistenziale, una regola filosofica che Raimondi stesso spiega poi nel corso di questa 'conversazione' con Rondoni. La sintesi ideale di questo suo atteggiamento è proprio nelle righe conclusive, ed il fatto non è assolutamente casuale in uno scrittore come lui, che delle strutture letterarie discute da sempre con originalità di risultati: «Mentre sembro tenere le distanze, però, so di essere attento, e chi è attento si avvicina. […] Si potrebbe dire che io cerco di comunicare un calore che si avverte nel tempo, anche se non si percepisce subito».
    Comunicare. Ricorda Ezio Raimondi, in altro passo: «All'Università non mi è mai riuscito di fare una lezione seduto sulla cattedra: l'ho sempre fatta in piedi e se fossi stato in un'aula di scuola mi sarei mosso tra i banchi. Non mi riusciva di concepire un rapporto a sbarramento, in una sorta di gerarchia prestabilita, e meno che meno desideravo collocarmi in alto. Ho sempre preferito stare più in basso di coloro che ascoltano». Ritorno con la mente all'anno accademico 1960-61 quand'ero matricola al Magistero bolognese: Raimondi aveva allora poco più di 36 anni, essendo nato nel 1924. Lo accompagnava già la fama di fanciullo-prodigio (a livello europeo) della nostra storia della letteratura più seria. Il pienone delle sue lezioni sembrava ripetere quello che si trova descritto a proposito del professor Giosue Carducci. Ogni volta Raimondi recava con sé una pila di volumi che appariva altissima, una volta deposta alla sua sinistra sul primo banco dell'antica aula di via Zamboni; e che sembrava ridursi nelle sue dimensioni quando il professore la abbracciava al suo fianco, all'ingresso ed al termine del suo discorrere.
    La sua figura allampanata, il profilo acuto come quello di un asceta che prendeva luce dalla parole e calore dagli argomenti, avevano un effetto ipnotico sull'uditorio: il gesticolare del braccio destro, con quello sinistro rigorosamente indirizzato a placarsi nel cercare il libro necessario per la citazione utile all'argomento trattato, tracciava le coordinate di un pensiero che fluiva limpido, prendeva corpo in articolazioni sintattiche sempre più geometriche, con una chiarezza espositiva che era frutto di una consapevole dignità del maestro il quale sapeva bene essere quello il momento in cui tutto si gioca non nella sfida sapienzale, ma nella moralità della vita dell'intelletto.
    Non c'è pagina di Raimondi, in queste «Conversazioni», in cui non ritorni il tema della funzione etica della vita intellettuale, a rispecchiare un'esistenza spesa all'insegna del rispetto delle regole del gioco e dell'«assunzione di responsabilità», ben consapevole però che gli eventi esterni ci possono obbligare «ad aperture e a lacerazioni, a una sensibilità, per così dire, più virile insieme e commossa». Sono quei fatti che la sua generazione ha conosciuto sotto la specie delle «atrocità» e della «catastrofe», quando «la parola può anche sentirsi umiliata e mortificata, quando riconosce che può tradire se stessa».
    Come letterato, Ezio Raimondi ha nelle sue origini una particolarità che lo contraddistingue, e che identifichiamo in quegli «interessi filosofici» che lui avvertiva mancare ai suoi compagni dell'Università. Oggi, in tempo di pensiero debole e di totale oscuramento della dimensione filosofica sotto quasi tutte le latitudini, potrebbe apparire eccezionalmente solitaria questa sua caratteristica, ma così non è, se si ricorda il bisogno di indagine speculativa presente in quei giovani usciti allora dalla guerra, ai quali «cominciava ad aprirsi l'universo della vita culturale contemporanea»: «Era il senso di una pluralità che andava costruito, in cui bisognava riconoscere le distinzioni e ammettere le specificità, senza interpretazioni preordinate».
    Quegli «interessi filosofici» lo hanno sempre accompagnato nella sua ricerca critica ed anche nella pura dimensione esistenziale, come ci documentano le pagine che abbiamo sotto gli occhi, dove le idee si fanno realtà, dove l'esperienza singola assume un valore paradigmatico per conoscere tempo e modi in cui essa si è andata sviluppando nella compagnia degli uomini e nei silenzi delle biblioteche.
    E tra i personaggi che dalle biblioteche derivano il loro essere, che tra i libri hanno avuto il loro mito e forse anche la loro dannazione, non può mancare un particolare accenno ad uno scrittore al quale Raimondi ha dedicato un'analisi del tutto originale e continua, Renato Serra. Nel '38 Raimondi conosce un giovane tedesco nemmeno trentenne che «nell'atto di riflettere sulla guerra imminente e sull'incipiente tragedia tedesca, ritrovava nell'Esame di coscienza di Serra l'unico atteggiamento autentico che si deve prendere nei confronti della guerra» («Serra diceva che la guerra non cambia niente»): «In quel momento avevo come il segno concreto che l'Esame di Serra non apparteneva più soltanto alle polemiche nostre, tra razionalismo e irrazionalismo, con il dannunzianesimo e altro. Avevo la risposta di qualcuno che, nel momento in cui doveva prendere posizione dinanzi a un evento drammatico, sentiva che il nostro Serra, vent'anni prima, in una guerra in cui i tedeschi erano i nemici, aveva indicato una logica etica e intellettuale, di fronte all'epifania brutale della storia». Quel Serra così strenuamente legato a Cesena, rinviava «a una misura, a un respiro europei». Dalla 'lettura' di Serra, Raimondi ha tratto due libri che disegnano un poco anche il profilo della sua ricerca: «Il lettore di provincia» (1964) ed «Un europeo di provincia» (1993), indicandoci nella «logica etica e intellettuale» del rifiuto della guerra, una lezione che da Serra arriva utilmente sino a noi.


    votre commentaire
  • Il cane da guardia.
    Giornalismo e politica a Rimini in crisi.

    Lettera a "il Ponte", 7 dicembre 2013


    Caro Direttore don Giovanni Tonelli,
    il tuo editoriale apparso nel "Ponte" dell'8 dicembre scorso, lancia un giusto ed onesto allarme sulla crisi di Rimini.
    Fonte bene informata mi spiega che la "situazione" dell'aeroporto di Miramare era nota agli addetti ai lavori già da sei anni. Noi "semplici cittadini", come recitavano le cronache politiche di un tempo, abbiamo smesso da parecchio di meravigliarci, non perché dotati di particolare sensibilità, ma soltanto in virtù del fatto che alla favola della cicogna non abbiamo mai creduto. Né ci crediamo soprattutto ora.
    Un Comune come Rimini, che per la prestigiosa carica di Assessore alla Cultura va in prestito a Cesena onde trovare una persona degnissima, racconta forse in maniera trascurata ma efficace una certa visione del Mondo che non è considerata meritevole di attenzione.
    All'inizio di questo secolo XXI, a Rimini si facevano grandi (e strani) progetti, proprio mentre da molto lontano arrivavano chiari segnali della crisi economica mondiale incipiente, che ora ha ridotto noi italiani come dei naufraghi senza scialuppa di salvataggio. E a chi, come il sottoscritto, ne scrisse qualcosa sopra un quotidiano locale, arrivò la risentita risposta politica che rivendicava, con elegante ma sovrabbondante retorica, l'inconfessata superiorità della classe dirigente amministrativa che si autoproclamava unica depositaria della funzione di decidere.
    L'aumento dell'astensionismo alle urne, e quelle forme partitiche classificate con la controversa etichetta di "populismo", confermano un unico dato di fatto: i cittadini non riescono più a sopportare ("digerire") questi politici, con una giudizio sommario che fa di ogni erba un fascio, in una notte scura in cui tutte le vacche sono nere.
    Ma è colpa dei cittadini o colpa dei politici che hanno servito a tavola cibi indigesti al punto che l'inventore della riforma elettorale appena bocciata dalla Corte Costituzionale, l'aveva definita una "porcata"? Veniva allora, e viene ancora, facile il gioco di chiedersi se quella etichetta fosse una specie di autobiografia volontaria, confessata per orgoglio di appartenenza ad una certa linea politica.
    Hai molta ragione, caro direttore, nel sottolineare, chiudendo l'editoriale, questi aspetti: 1) individualismo dei riminesi, 2) furbizia di certe persone o gruppi, 3) loro recita pubblica, litigando soltanto sui giornali locali (secondo la vecchia lezione dei proverbiali "ladri di Pisa").
    L'ultima tua annotazione ("Ognuno però ha il peso di una classe politica che si merita"), centrando il tema con efficacia, abbisognerebbe di un approfondimento che lo spazio non ti permetteva.
    Anche tu credi che la libera stampa sia il cane da guardia della democrazia. Per questo, quel cane non deve abbaiare alla luna, ma deve registrare ed illustrare, giorno dopo giorno, tutto quello che non va, senza guardare in faccia a nessuno.
    In tempi in cui la crisi della stampa tradizionale fa temere la scomparsa dal formato di carta per molte testate, facendole rifugiare nel mondo del web, occorrerebbe che la gente comune sentisse il bisogno di un'informazione indipendente (come quella che dimostra il tuo fondo), affiancandosi con un sostegno economico al giornale che legge.
    Il quale sostegno dovrebbe garantire al cane da guardia il cibo che altrimenti sarebbe costretto ad attendere da altre mani. Un cibo che, se offerto gratis, sempre contiene delicati e dolci sonniferi perché poi il lettore, alzando gli occhi attorno a sé, non veda quanto accade.
    Cordiali auguri a tutti.
    Antonio Montanari


    votre commentaire