• In Toscana si preparavano alle cerimonie ufficiali per il centenario (6 aprile) della morte di Giovanni Pascoli, celebrato in pompa magna a Barga.
    Nella Romagna solatìa dolce paese, di Zvanì si ricordavano a bocca storta alcune cose, per etichettarlo come il Vecchio Poeta, e lodare qualcun altro (appena) passato nel mondo dei più.

    È successo, per essere precisi, con la scomparsa di Elio Pagliarani, di cui un altro collega poeta (ci si scusi l'iniziale minuscola), Sergio Zavoli, diceva che Pagliarani appunto aveva rifiutato ogni "poetica ridondante, sentimentale e fanciullina".
    Poi nella nostra Rimini è arrivato l'assessore provinciale alla Cultura Carlo Bulletti, con un esemplare comunicato da tramandare ai posteri per l'incipit di rara presunzione: "Non tutti sanno che...". E l'assessore, pure lui, se la prendeva con le parole fanciulline, evocandole attraverso richiami precisi come il "linguaggio aulico" e lo "stucchevole lirismo".

    Pascoli nel 1897 pubblica un saggio, "Il fanciullino", in cui spiega le sue idee sulla Poesia, mica si mette a cantare canzonette da asilo-nido.
    Roberta Cavazzuti in un volume (2004) della collana dedicata alla storia della Letteratura italiana diretta da Ezio Raimondi per la Bruno Mondadori, riassume in maniera mirabile quelle idee.
    La novità di Pascoli si può sintetizzare con questa frase della Cavazzuti: "Il poeta coincide con il fanciullo che è in ognuno di noi, non solo in qualche uomo superiore, privilegiato...".
    Da non tralasciare un altro passaggio fondamentale: "la poetica pascoliana ripudia" sia la retorica di Carducci sia la dannunziana liturgia della parola.

    Bastano queste due brevissime citazioni per comprendere che l'esperienza pascoliana (con tutti gli annessi e connessi storici), è qualcosa di più di un'etichetta di comodo con la quale porla nel dimenticatoio, per privilegiare i meriti di chi è venuto dopo.
    Meriti che non mettiamo in discussione, a patto che non li si spedisca in ridicola concorrenza con quelli di chi ha vissuto altre e più lontane epoche.
    Zvanì non è un Vecchio Poeta da rinchiudere in soffitta per cedere posto ad altre Glorie più recenti.
    Nelle storie della Letteratura, c'è posto per tutti quanti sono scomparsi dal palcoscenico della vita.
    Lasciate che a sbranarsi siano i contemporanei vegeti che ambiscono alla pretesa di esserne unici protagonisti. E che, con tutti i mezzi, cercano di realizzare un loro sogno da inutili superuomini.
    Antonio Montanari


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  • S'intitola "Breviario" la nota rubrica che appare la domenica nel supplemento culturale del "Sole 24 Ore", firmata dal card. Gianfranco Ravasi. Il 15 gennaio scorso il tema era "la libertà": "L'educazione a essere liberi, non solo da un'imposizione sottile, com'è quella della deriva mediatica, ma anche per una scelta e un impegno personale, è un'opera severa e faticosa".

    Di quest'opera severa e faticosa abbiamo un'illustrazione proprio a Rimini nel Tempio malatestiano, nella cappella detta delle sette arti liberali, ovvero le materie di studio per gli uomini liberi (ai servi toccavano le arti manuali): Grammatica, Dialettica, Retorica (il "Trivio"), Aritmetica, Geometria, Musica, Astronomia (il "Quadrivio"). Nella cappella le immagini sono però diciotto. Per questo motivo uno studioso come Corrado Ricci scrisse che in essa vi è "altro ancora", con un'incerta espressione simbolica delle figure.
    Noi vi proponiamo una veloce lettura delle diciotto immagini suddivise nelle due colonne laterali ed in tre strisce per colonna, partendo dall'alto verso il basso per ogni striscia che indichiamo con lettera dell'alfabeto. Striscia A: la Natura ispira l'Educazione che opera attraverso la Filosofia. Strisce B e C, le materie di studio: Letteratura, Storia, Retorica (Arte del discorso), Metafisica (o Teologia), Fisica, Musica. Nelle due strisce successive (D, E), si mostra come conoscere la Natura attraverso le Scienze che sono: Geografia, Astronomia, Logica, Matematica, Mitologia e Botanica. L'ultima striscia (F) rivela lo scopo della cultura, ovvero educare ad una vita tra cittadini tutti uguali e quindi liberi: qui le tre immagini rappresentano la Concordia, la Città giusta, e la Scuola.
    Il tema della Concordia ha una doppia lettura. Esso riguarda non soltanto la vita della città (opponendosi ai governi dei prìncipi come Sigismondo), ma pure l'Unione fra le due Chiese (proclamata il 6.7.1439 con un decreto destinato a breve durata). Per quella unione i Malatesti hanno svolto un grande ruolo in nome della Chiesa. Nella tavola della Concordia si raffigura un'unione matrimoniale: la donna potrebbe essere Cleofe Malatesti, scelta dal papa comesposa (1421) di Teodoro, figlio dell'imperatore di Costantinopoli, e poi finita uccisa.
    Nella scelta delle immagini c'è la mano dello stesso architetto (ed ottimo scrittore) Leon Battista Alberti, seguace di un umanesimo civile che vuole una società nuova diversa dai principati. [Anno XXXI, n. 1066]

    Antonio Montanari
    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA

    il Ponte, settimanale, Rimini, 29.01.2012

     


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  • Egregio Signor Stato, da Voi m'è arrivato il modulo solenne per il Censimento. I tg m'hanno spaventato, non ho ancora aperto la busta che contiene il malloppo. Anche perché a quello mio personale se ne sono aggiunti altri tre circonvicini, provocandomi macchie rosse sul viso e pruriti in varie parti del corpo.
    Dello Stato sono stato umile servitore, come per varie generazioni lo furono tutti i rami della famiglia da cui provengo. So che cosa significhi la parola stessa di Stato, non un fiato di voce ma una sostanza delle cose. Lo sperimentai tanti anni fa: quando nelle scuole più i maestri degli allievi tentarono di sovvertirlo. Con calma e pazienza dovemmo affrontare le buriane dei cosiddetti contestatori, tutte persone di eccellente intelletto, tanto che poi loro, che maledivano lo stato malridotto dello Stato, fecero di tutto per entrarvi e trovare ottime sistemazioni nelle varie articolazioni della Pubblica Amministrazione.
    Questo non significa però che pure lo Stato non commetta i suoi errori. E che in sé non abbia qualcosa di cui non potrebbe dichiarare tutto. Si compone una biblioteca intera con i volumi che riguardano segreti di Stato, misteri di Stato, armadi della vergogna, deviazioni dei Servizi segreti. Ha ragione, signor Stato, a chiederci di essere sinceri. Ma forse non abbiamo tutti i torti neppure noi umili cittadini, spesso trattati alla stregua di sudditi, a chiedere che su certe cose bisognerebbe cambiar musica. Quella che ci è stata fatta ascoltare, talora non è piaciuta, non perché siamo noi di gusti difficili, ma soltanto perché direttori stonati o cantori sfiatati non hanno fatto bella figura nei pubblici concerti.
    Un esempio? Nel diario segreto di Tina Anselmi sulla P2, pubblicato da Anna Vinci, un capitolo è intitolato "Sanno che sono sola". Vi si legge: "Da varie parti politiche mi si segnala la volontà di chiudere questa vicenda in maniera indolore" (p. 369). L'intervento di Tina Anselmi alla Camera il 9 gennaio 1986 terminava ricordando che nel sistema democratico "non vi è e non può esservi posto per nicchie nascoste o burattinai di sorta" (p. 431).
    Se non mento al Censimento per principio e non soltanto per paura di sanzioni, lo stesso comportamento vorrei che lo Stato assumesse verso i suoi cittadini: essere un libro aperto e non pure, per gravi vicende, un fascicolo chiuso, ben nascosto, con pagine cancellate o strappate. [XXX, 1053]


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  • Un noto gruppo di studiosi locali, al termine della tradizionale cena d'agosto sull'Appennino organizzata per svelare nuovi segreti della nostra cultura, è giunto in possesso di una lettera riservata dell'imperatore Tiberio, anche grazie all'alta gradazione alcolica dei ripetuti brindisi finali. Una fonte riservata ce n'invia una copia. Essa comincia con una drammatica domanda: "Per quanto tempo ancora, o cittadini di Rimini, abuserete della mia pazienza, e recherete disonore al mio illustre ricordo, continuando a far transitare automobili sull'antico ponte che porta il mio nome e sopporta la vergogna di non aver voi trovato una soluzione alternativa?".
    La lettera prosegue ricordando per filo e per segno quanto avvenuto in città a proposito del ponte di Tiberio sin dagli anni del dopoguerra, quando sopra di esso passavano pure i camion con rimorchio, prima che venissero realizzate l'autostrada e la nuova circonvallazione. Seguirono i progetti di abbattimento del Borgo di San Giuliano, sul quale Tiberio rivendica un diritto di controllo per l'ovvio motivo che senza il suo ponte per il quartiere ci sarebbe un isolamento totale.
    Tiberio conosce i progetti che volevano trasformare la zona a monte del ponte in una piscina olimpica, i lavori del porto canale con le banchine inondate regolarmente, il ripetuto intervento per salvare il salvabile con l'immenso pannolone posto ai suoi piedi verso il mare , l'idea di creare una strada alternativa, ed infine (ai nostri giorni) il fatto che, dove doveva passare quella strada, sorgerà una casa con regolare licenza comunale.
    Noi non abbiamo nulla da obiettare ai pensieri di Tiberio anche perché, come ha scritto il prof. Luciano Canfora sul CorSera del 27 agosto, era un imperatore maledetto il cui cadavere fu trascinato con gli uncini fino al Tevere e scaraventato nel fiume. Quindi il nostro Tiberio di fiumi se ne intende e non vorremmo che, per colpa di questa sua lettera riservata, a qualcuno di casa nostra venisse in mente di ripetere l'operazione con l'effigie di chi scrive. I tempi non sono dei migliori. Lo dimostra il fatto di cronaca che ha visto per protagonista un assessore della nostra Provincia. Per aver ricordato che, mentre si pensa al metrò di costa tra Rimini e Riccione, è un'impresa garibaldina quella di raggiungere Bologna sulla strada ferrata, è stato querelato dalle Ferrovie. Perché l'Alta Velocità snobba la nostra Riviera? Un mistero degno di Tiberio, verrebbe quasi da dire. [XXX, 1052]

    Antonio Montanari
    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA

    il Ponte, Rimini, settimanale, 4.9.2011


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  • Nadia Urbinati, studiosa concittadina che insegna Scienze politiche alla Columbia University di Nuova York, ha rilasciato un'interessante intervista al "Corriere di Romagna" (16.8). La si potrebbe riassumere con le tre parole che ha usato passando in rassegna i problemi di Rimini: la città ha bisogno di "coraggio per cambiare". Ci sia consentito di segnalare che alla prof. Urbinati va il merito di aver discusso del presente e del futuro di Rimini, senza citare Fellini che fa parte ormai della insopportabile retorica da "un tanto al chilo", alla quale nessuno vuole sottrarsi quando affronta simili questioni.
    Nelle scorse settimane ci è capitato di descrivere lo spirito archeologico della vita politica locale che ha lasciato deperire il centro storico, afflitto dai ruderi di palazzo Lettimi, e dai fantasmi del teatro Galli e del meraviglioso anfiteatro svanito dalla memoria collettiva e dai progetti pubblici.
    La prof. Urbinati ha dichiarato che il centro storico di Rimini è dominato da un "senso di sciatteria e di abbandono". E che il castello malatestiano "resta soffocato da un parcheggio". L'immagine della piazza principale della Rimini medievale, è oggi desolante. Per parecchio tempo alla città è stato offerto come tranquillante il sogno del fossato del castello che doveva rivoluzionare tutto, e che rassomiglia tanto al progetto del trasporto rapido costiero.
    Sulla piazza del castello, la prof. Urbinati ha precisato: "Ancora una volta manca una visione di recupero. È un problema generale, mi sembra, non solo dei politici: gli operatori investono meno nella riqualificazione delle aziende turistiche che nell'acquisto di case, contribuendo così alla cementificazione. È una catena infernale della quale sembra che nessuno si renda conto. Ma non si può andare avanti a lungo...".
    Circa il metrò di costa, la prof. Urbinati ha puntualizzato: a Bologna un esperimento simile "si è rivelato un bluff, un errore (carissimo)". Ed ha suggerito un'iniziativa politica rivolta a far dirottare i fondi del trasporto rapido costiero verso l'emergenza attuale, "il vero problema urgente: la salute del mare". E questo perché il nostro sistema fognario è stato costruito "per un Comune che non aveva la popolazione della capitale del turismo".
    La stoccata più severa è nel passo in cui la prof. Urbinati sintetizza la propria opinione sul mondo riminese: in tutte le sue componenti politiche e civili, esso da varie generazioni ha una visione miope dei problemi. [XXX, 1051]
    Antonio Montanari
    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA
    il Ponte, Rimini, settimanale, 28.8.2011


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