• Una rondine non fa primavera, però la replica dei programmi tv fa estate. Se la Natura ha leggi rigide ma concede pure variabili indipendenti, la politica è un ferreo sistema che non suggerisce bensì impone. E non ammette eccezioni alla regola. Le stagioni, come dicevano una volta le vecchie professoresse di Scienze bevendo un tè, non sono più quelle di una volta. Poi sono venute le professoresse giovani che hanno cominciato a sostenere che non ci sono più le mezze stagioni. Invece i politici di ogni età di ieri e di oggi hanno sempre sostenuto che il mondo deve andare come essi desiderano, vogliono e fermamente pretendono.
    La replica estiva dei programmi tv è frutto di un eterno desiderio dei politici di addormentare il pubblico nel confortevole sopore fornito dalle cose viste. L'aspetto comico della cronaca di questo principio d'estate 2011, è che la replica ha contagiato anche la stessa politica. Negli ultimi giorni i nostri giornali sono stati pieni di cronache giudiziarie in cui vecchi volti sono stati nuovamente piazzati in prima pagina. Non per raccoglierne confidenze rassicuranti, ma per narrare ancora una volta, con il beneficio della presunzione d'innocenza, gli stessi coinvolgimenti fra trame segrete e vita dello Stato. Un'etichetta pietosa ed ormai antica le classifica come misteri del Bel Paese.
    Un mese prima delle recenti rivelazioni giudiziarie, Concita De Gregorio direttrice de l'Unità sino al 30 giugno, si era chiesta che cosa ci facesse un certo signore protagonista di quelle rivelazioni, in un certo Palazzo del Potere romano. Da quel Palazzo, via centralino del Ministero degli Interni, alla stessa direttrice arriva poi un confortevole suggerimento: "Mi permetto di metterla in guardia da eventuali errori. Non vorrei che avesse a dolersene. Lei sa meglio di me quanto certi terreni siano insidiosi e fitti di trappole", perché non si vuol fare a meno di una voce importante come la sua.
    Un mese dopo quella telefonata e dopo le rivelazioni giudiziarie sui vecchi faccendieri ancor oggi ospiti di quel Palazzo e titolari di fascicoli penali, una vocina ha anticipato la "uscita" della direttrice, poi resa nota la sera del 18 scorso.
    Lo storico Massimo Teodori, che fece parte della Commissione parlamentare sulla P2, ha scritto sul CorSera che certi personaggi da tempo alla ribalta per cattive compagnie, andrebbero tenuti lontani dalla cosa pubblica. Questa volta la replica delle trame oscure non fa appisolare ma inquieta. [Anno XXX, n. 1045]

    Antonio Montanari
    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA, il Ponte, Rimini, settimanale, 26.6.2011


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  • Rimini 1956, madre e figlia al concorso per Miss Italia. La foto, tratta da un volume del 2000 di Lucia Motti, è nell'ultimo numero di Tuttolibri, in un articolo di Anna Bravo sul testo "Italiane. Biografie del Novecento" di Perry Willson.
    Ho dovuto sinora scrivere 239 battute per dire soltanto che un giornale ha pubblicato una vecchia immagine su Rimini. Adesso bisognerebbe spiegare che la signorina del 1956 veste un severo costume da bagno intero, mentre sua madre indossa un solenne abito scuro, rallegrato da chiari risvolti a mezzamanica e da analogo colletto. La giovane sorride impacciata. La madre marcia con lo sguardo fisso oltre la prima fila degli ombrelloni, immaginando un radioso avvenire per la fanciulla.
    Se volessimo completare il discorso, dovremmo aggiungere qualcosa sull'Italia di quel tempo, sulla Rimini di quel decennio che mirava al rilancio turistico come base dell'economia cittadina. Mentre tutto il Paese vedeva spopolarsi le campagne, con la gente che andava a lavorare nelle fabbriche del Nord.
    Quindi, cari lettori, comprendete quanto sia complesso, arduo, difficile, ed anche storicamente pericoloso commentare una foto. Di ogni fatto, come si divertiva il settimanale Candido, c'è sempre un visto da destra ed un visto da sinistra.
    Il lettore può immaginare quale fatica farebbe un cronista tra 55 anni (gli stessi che ci separano dall'aspirante miss a Rimini del 1956, quando vinse Nives Zegna), a raccontare una foto scattata a Roma l'8 giugno 2011. In un teatro dove si radunavano sotto la guida illuminata di Giuliano Ferrara altri direttori di giornale come lui, autodefinitisi con sicurezza cartesiana "servi liberi di Berlusconi".
    La nostra, pardon, la loro foto vede il direttore di Libero che s'inchina sorridendo alla sorridente immagine di cartone del Cav. curiosamente non a grandezza naturale ma un poco ingrandita in altezza. Mentre il suo collega del Tempo se la ride apertamente. Forse grazie al fatto di vivere e lavorare nella capitale che sarà quello che sarà, ma non ha un sindaco responsabile di aver scippato la signora Moratti, e mica dico la cassiera d'un bar, della prima poltrona di Palazzo Marino.
    Compatiamo affettuosamente chi fra 55 anni avrà l'ingrato incarico di spiegare ai propri lettori come mai nel 2011 qualcuno, con in dote molta intelligenza e cospicui stipendi, abbia proclamato urbi et orbi, a chi ci crede e a chi no, che esistono anche i servi liberi, oltre ai liberi servi che si incatenano da soli. [Anno XXX, n. 1044]

    "il Ponte", settimanale, Rimini, n. 23, 19.06.2011


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  • Ci sono coincidenze un po' beffarde nella Storia. Tra sfilate, inni e canti si celebrava in maniera particolare (per i 150 anni ben sudati della nostra Italia), la festa della Repubblica. Nata il 2 giugno 1946 con il primo suffragio universale. Ovvero con la chiamata alle urne anche delle donne. Ai cittadini di questo Paese, che l'inno di Mameli hanno usato quasi soltanto come sottofondo nelle partite della Nazionale, si offriva una notizia ghiotta e confusa. Lo scandalo calcio-scommesse. Distratti dai fatti della vita, potevamo tutti, con innocenza infantile, essere vittime di un cortocircuito mentale: ma perché tanti inni proprio ora che il pallone rinnega il suo ideale di sport popolare e patriottico, anche se diviso tra guelfi e ghibellini, ovvero tifosi non sempre abituati ad applicare i precetti del galateo più spicciolo?
    Ci sono dei Paesi in cui capi di governo e di un partito politico sono anche stati presidenti di una squadra di calcio, e si vantano di essere abili nel governo del Paese così come erano validi nella gestione della compagine sportiva. In Italia c'è stato un armatore napoletano che fece del calcio lo strumento della sua ascesa politica, assieme alle scarpe spaiate regalate agli elettori. Una prima ed una dopo il voto. Tanto per camminare sul sicuro.
    Noi italiani ci rallegriamo ancora per la vittoria del 1982, quando diventammo campioni mondiali l'11 luglio. Abbiamo memoria più corta per altri fatti di quell'anno. Ciò è comprensibile. Anche i migliori cervelli hanno spazi limitati, mica tutto si può ammassare nella scarsa materia grigia. Onore eterno per il Bearzot di quell'anno. Ma facciamo un pensierino pure per altri nomi. Ad esempio, 3 settembre, uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa con sua moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente Domenico Russo. Con altro scopo, un'altra citazione: 13 settembre, a Ginevra arresto del capo della Loggia P2 Licio Gelli. Se il tema interessa, i diari segreti di Tina Anselmi sulla P2 sono ora pubblicati da Anna Vinci. Un capitolo s'intitola "Sanno che sono sola". Era il 1983.
    Il Bearzot del 1982 era stato invocato dalla Rosea con un "facci sognare", tornato dieci anni dopo per Antonio Di Pietro su un settimanale di sorrisi e canzoni, come annotava nel 1995, con l'amabile perfidia che ce lo fa rimpiangere, un grande scrittore scomparso: Edmondo Berselli.
    Oggi non abbiamo sogni ma calciatori addormentati dagli scommettitori con bibite fraudolente. L'Italia si desterà? [anno XXX, n. 1043]

    Antonio Montanari
    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA

    "il Ponte", Rimini, settimanale, 22.06.2011


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  • Ho ascoltato alla radio un bell'elogio dei cibi delle nonne di un tempo, accompagnato da una precisazione che però non mi è piaciuta. Quelle nonne, è stato detto, rappresentano "la sana povertà di ieri". È soltanto un'opinione, questa mia, e quindi vale per quello che vale. Ma nessuna miseria è sana. Chi dispone di cattedre o di microfoni può felicemente inventare teorie ed incollare fra loro frammenti di storie sconosciute, per sostenere sicuramente le cose che vuole.
    Ma per tutti purtroppo c'è sempre un terribile agguato in cui anche le migliori etichette possono sprofondare, se non si controlla l'entusiasmo con il quale si costruiscono gli slogan. Nessuna povertà è mai stata sana, verrebbe da rispondere con una battuta, perché molte miserie hanno provocato troppe malattie e tante vittime.
    Una cosa è elogiare la dignità di chi con sacrifici immensi costruiva una famiglia cercando di proteggerla soprattutto da quelle insidie che la miseria fabbrica come scappatoie per risolvere tanti, difficili problemi. Una cosa è avere nostalgia dei propri sentimenti e delle esperienze vissute in ambienti in cui la protezione famigliare era un bene supremo spesso desiderato ma non sempre attuabile. 
    Ci sono lunghi capitoli della Storia d'Italia, di questa nostra Penisola che inanellava addii, partenze, fughe come espressioni di bisogni economici imposti dalla fame, primogenita e crudele creatura della miseria.
    Ed allora apriamo qualche cosa: un libro, internet o quello che volete voi, magari un armadio di famiglia. E vediamo alla voce immigrazione, cerchiamo la pagina di Marcinelle, la miniera belga, 8 agosto 1956, 262 vittime di cui 136 nostri compaesani. Scrisse il "Corriere della Sera": "L'Italia può esportare dei lavoratori, ma non degli schiavi".
    La sana e buona povertà d'un tempo, era quella delle nonne che restavano a casa senza poter mai avere niente, ed attendendo sempre qualcosa. Era il ritorno del marito che lavorava all'estero. Oppure, l'arrivo del figlio che si era fermato al Nord entro i confini nazionali, per un posto sicuro ma non per un letto confortevole, perché ad esempio, a Torino, c'erano i cartelli che non si affittava ai meridionali.
    La geografia dei sentimenti è molto più complicata della cosiddetta storia spicciola che a volte sentiamo raccontare con questi ricordi pieni di rimpianto per qualcosa che è fuggito e non torna più. Ma non illudiamoci che i nostri slogan, eleganti e definitivi, riassumano fatti veramente avvenuti. [1042]

     


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  • Il quadro delineato dal Censis sulla condizione giovanile in Italia, e presentato alla Camera, è riassunto da Raffaello Masci (Stampa): "I giovani sono sempre di meno, e questo all'incirca si sapeva. Ma sono anche il segmento sociale più fragile, emarginato, povero e disilluso della popolazione". Per l'Ance (associazione dei costruttori) in sette anni i laureati italiani finiti all'estero sono aumentati del 40%. Negli ultimi dieci mesi sono stati 65 mila i giovani trasferitisi oltre confine: "Via da un Paese di vecchi: con un progetto in testa e la certezza che per realizzarlo bisogna andarsene", ha scritto Luisa Grion (Repubblica). L'Ance avverte: i laureati italiani fra i 30 ed i 34 anni sono (2009) il 19% dei coetanei. La Comunità europea ha posto per il 2020 il traguardo del 40%.
    Una voce da Milano, raccolta da Chiara Berie d'Argentine (Stampa): "Anche i più giovani sembrano non aver fiducia del futuro. Non dovremmo criticarli ma appassionarli; per riuscirci dobbiamo cominciare ad appassionarci noi adulti". Chi parla è don Giorgio Riva, 64 anni, laurea in Ingegneria al Politecnico, parroco a Santa Francesca Romana, in una delle zone a più alta densità, con esperienza per undici anni nella Chinatown milanese.
    Il problema dei giovani non è soltanto italiano. Dalla Spagna sono arrivate dal 15 maggio le notizie sulla sfida degli Indignados, scoppiata in vista delle elezioni del 22 maggio. La campagna elettorale per tutti i Comuni ed i governatori di 13 su 17 regioni, non ha prodotto nessuna repressione. Il ministro degli Interni ha scelto il dialogo e non i manganelli.
    I giovani spagnoli, ha scritto Francesca Paci (Stampa), si considerano senza un futuro, proprio come i coetanei egiziani alla vigilia della rivoluzione. Stessa constatazione leggiamo in Maurizio Ferrera (CorSera): "Gli indignados chiedono soprattutto di essere ascoltati, reclamano riconoscimento, rispetto, prospettive per il domani", per nulla "diversi dai giovani che protestano nel Nord Africa e nel Medio Oriente".
    Da Elisabetta Rosaspina (CorSera) cito alcune testimonianze che ha raccolto davanti al palazzo della Comunidad di Madrid. Claudia, 20 anni: "Ci hanno rubato il lavoro"; Alberto, 24: "Voglio soltanto un lavoro per non pesare più sui miei"; Pilar, bibliotecaria cinquantenne: "I ragazzi hanno ragione, troppi tagli alla cultura". Mariano, un pensionato di 87 anni, protesta ricordando: nelle celle di quel palazzo fu incarcerato nel 1961 per antifranchismo. [1041]

    Antonio Montanari
    (c) RIPRODUZIONE RISERVATA

    "il Ponte", Rimini, 29.05.2011


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