• L'esempio delle donne, nel 2018


    Settanta donne sono state scelte dal Corriere della Sera per rappresentare l'anno appena trascorso.
    In testa ad una classifica ideale, appaiono Liliana Segre, Paola Egonu ed Ilaria Cucchi.



    Il titolo della pagina cartacea del 29 dicembre 2018, aggiunge: "Ma anche volontarie e ricercatrici”.



    Personalmente, in una classifica ideale al quarto posto metterei Michelle Obama, figura che rappresenta più che la politica spicciola la Storia, con la stessa intensità, pur se in diverso contesto, di Liliana Segre, Paola Egonu ed Ilaria Cucchi.
    Le foto sono riprese dal sito web del Corriere.


    A Michelle Obama (foto dal web) il Corriere della Sera ha dedicato lo scorso 29 dicembre un servizio il cui titolo spiegava che "Michelle scalza Hillary" nei sondaggi, essendo la più amata d'America.
    Antonio Montanari


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  • "Pascal Bruckner: «L'Europa crolla perché il sapere è diventato il nuovo nemico»"

    Questo titolo del "Corriere della Sera" di oggi 28 dicembre 2018 ci spinge a riflettere su tante cose.
    Ognuno lo faccia per conto proprio, tenendo presente che sapere significa anche (se non soprattutto) conoscere la Storia.



    Al discorso tremendamente serio di Bruckner alleghiamo un montaggio fotografico, con l'Europa mitologica del suo rapimento (opera di Martin de Vos. Amberes, 1532-1603, Bilbao) e le europee di oggi che non possiamo presentare con il costume dell'Europa mitologica, ma con quelli odierni, belli, suggestivi, invitanti più della mitologia e del sapere. Che sia colpa di questi "cattivi" costumi, se "il sapere è diventato il nuovo nemico"?


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  • ANTOLOGIA

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Demos Bonini.
    Due articoli de "il Ponte" del 1987 e 1991.

    Il mio amico Guttuso
    "Il mio incontro con Renato Guttuso risale al 1950". Il pittore riminese Demos Bonini ci racconta della sua amicizia con il celebre artista siciliano, scomparso recentemente.

    Guttuso era giunto in Romagna con la futura moglie, una nobildonna lombarda venuta a divorziare a San Marino. "L'ho conosciuto all'Aquila d'Oro, l'ho poi invitato nel mio studio che allora si trovava in via Dante, dove ora abito. Ha guardato i miei quadri, abbiamo parlato e mi ha suggerito di fare una mostra a Roma. Ed io ci sono andato, lui mi aveva offerto ospitalità nella sua bottega, in attesa di poter esporre in qualche sala libera".
    Bonini poté presentare le sue tele al pubblico capitolino solo dopo qualche mese. In quel periodo, rimase a lavorare nello studio di Guttuso, a cui faceva "un po' da segretario". Lo studiava, mentre preparava quadri che sarebbero poi diventati celebri.
    "In quel momento stava elaborando una tela enorme, la Battaglia di ponte Ammiraglia, sei metri per tre, piena di ritratti e di figure, molte delle quali erano di compagni di partito. C'è anche un suo autoritratto: è Guttuso quel soldato caduto all'indietro", ricorda Demos.
    I rapporti di Guttuso e Bonini si fanno sempre più cordiali: "Gli ero diventato amico. Quando lui doveva andarsene fuori per lavoro (scenografie e costumi per le rappresentazioni teatrali, ad esempio), dovevo aspettare un mercante che gli pagava 80 mila lire ogni disegno. Una cifra favolosa per quei tempi".
    La sera, talora, il giovane Demos conversava con la matura signora Mimise, "una donna eccezionale, piacevolissima come persona, l'unico vero amore di Guttuso".
    Guttuso ed amici avevano costituito una specie di cenacolo che si ritrovava nelle osterie romane. "Spesso - ricorda Demos - dovevo disertare gli incontri, perché non avevo una lira. Non uscivo di casa e me ne stavo a letto".
    Con un ritratto eseguito per un facoltoso committente, arrivarono i primi guadagni, 80 mila lire, come per un disegno di Guttuso. La frequentazione degli amici riprese. Guttuso gli chiese: "Ma dove sei stato finora, fuori Roma?". "No, chiuso in casa, senza soldi" rispose Demos che commenta: "Allora Guttuso mi disse una cosa che forse poteva essere antipatica: non chiedermi soldi, perché non li ho. Stando con me, puoi conoscere Roma".
    "A me non interessava farmi pagare per fargli da segretario o da aiuto. Mi era utile vederlo lavorare. Era un mago. Picasso gli aveva detto, pochi mesi prima, nella cappella Sistina in Vaticano, che loro due erano gli ultimi pittori con capacità michelangiolesche", ricorda Bonini che aggiunge: "Non volevo soldi, era contro il mio carattere. Cercavo soltanto di imparare".
    Dopo la mostra, Demos ritornò a Rimini: "Roma è una città suggestiva, è bello sedersi in piazza di Spagna e godersi la luce ed i monumenti, senza lavorare. Rimini mi è sempre piaciuta per viverci. A Rimini potevo lavorare. Poi certe cose non mi piacevano".
    E qui Demos racconta le tavolate in trattoria a cui intervenivano Moravia, Antonello Trombadori, Amendola e Pajetta.
    "Pajetta stava sempre zitto, serio. Chiuso. Perché - chiesi a Trombadori. Vigilanza rivoluzionaria, mi rispose. Ciò mi dava fastidio. Quella sera, me ne sono andato in un altro tavolo. A Guttuso che me ne chiese la causa, risposi che la vigilanza rivoluzionaria mi mandava di traverso il mangiare".
    La battuta non piacque, "dette noia". Ma Demos è fatto così: "Ho sempre avuto il bisogno di essere libero. Ho fatto la guerra di liberazione, ma non figuro fra i partigiani e così ho perso sette anni di anzianità, per la pensione". Tornando a Rimini, ho scelto la mia libertà, fra le cose più vicine e congeniali. Lasciare Guttuso è stato difficile. Eravamo proprio amici, poi avevo una grande ammirazione per lui come pittore".
    Come lavorava, quale stile caratterizzava allora Demos?
    "La nostra era una strana pittura, in quegli anni - risponde -. Ero nel periodo che chiamo post-cubista, ecco guarda questa natura morta, nascosta sopra quell'armadio, c'era il figurativo, l'espressionismo. Dal contatto di tanti di noi con Guttuso, nacque ‘Realismo', una corrente che ci offriva una visione più nitida delle cose. E a Rimini eravamo tutti realisti, Mori, Benzi, Miselli. Poi alcuni si sarebbero dissociati ... Io sono rimasto realista, per farmi capire meglio".
    Il discorso ritorna su Guttuso e la sua scomparsa: "Mesi fa un mercante che venne a visitarmi mi disse che ormai non c'erano più speranze. Sergio Zavoli me lo confermò".
    Dopo la morte, le polemiche sulla conversione: "Ogni uomo ha il diritto di scegliere e di fare secondo coscienza - dice Bonini -. Tutti noi possiamo un giorno ritornare alla fede che da fanciulli ci faceva dire le orazioni, quando la mamma controllava se le avessimo recitate davvero".
    Antonio Montanari
    "Il Ponte", anno XII, n. 5, Rimini 8 febbraio 1987



    Pittore realista per farmi capire
    Il pittore Demos Bonini si è spento il 20 agosto, a 76 anni. E' un altro pezzo dì una certa Rimini che scompare, a pochi giorni dal decesso di Glauco Cosmi (attento tessitore di trame culturali che spaziavano dal giornalismo alla musica), e nello stesso anno in cui ci ha lasciati Gianni Quondamatteo, uomo così semplice e genuino da ricercare in ogni attimo uno spazio per la riflessione sui valori che si vedono tramontare, in questa città divenuta alienante e quasi invivibile.
    Bonini debutta in coppia con Federico Fellini, nel 1937, aprendo in via IV Novembre una bottega della caricatura. Ad Urbino, intanto, frequenta l'Istituto di Belle Arti. Poi la guerra.
    Nei giorni della "repubblichina", sul finire del ‘43, il ras fascista Paolo Tacchi lo arresta assieme ad altre Otto persone e lo consegna ai tedeschi. Liberato, Bonini si dà alla macchia: "erano tempi difficili in cui anche gli amici e i compagni ti venivano a mancare", racconterà a Ghigi. "Ho fatto la guerra di Liberazione, ma non figuro tra i partigiani, e così ho perso sette anni di anzianità, per la pensione", mi raccontò per "Il Ponte" (8/2/1987).
    Nel 1950 c'è l'incontro con Guttuso, giunto in Romagna con la futura moglie, una nobildonna venuta a divorziare a San Marino. "Ha guardato i miei quadri, abbiamo parlato e mi ha suggerito di tenere una mostra a Roma". A Roma, Bonini fa "un po' da segretario" a Guttuso: "Non avevo una lira. Non uscivo di casa e me ne stavo a letto". Demos si considera l'allievo che vuole imparare la lezione dal maestro: "Mi era utile vederlo lavorare. Era un mago".
    Poi, il ritorno a Rimini ("Mi è sempre piaciuta per viverci, qui potevo lavorare"), e l'adesione a "Realismo", "una corrente che ci offriva una visione più nitida delle cose", spiegava: "Una pittura per farsi capire da tutti".
    Bonini, ad un certo punto, sembra trovare una sua sigla specifica nelle "giacche", così come Morandi l'aveva scoperta nelle "bottiglie". Ma dietro questi oggetti, non c'è soltanto l'intento di riprodurre cose, le cosiddette "nature morte". Anche la sua pittura è la ricerca di un significato nei simboli, di quello che Montale ha chiamato il "segreto" celato dietro "l'inganno consueto" delle nude immagini quotidiane.
    Ai paesaggi, negli ultimi anni, aveva affiancato altre opere che denunciavano il degrado della nostra vita. La polemica contro la rumorosa civiltà contemporanea, l'ha espressa nella "Grande piramide" di moto ammucchiate, a metà strada fra una montagna dei rifiuti e l'idolo sacro a tanti giovani.
    In un freddo, lunare grattacielo con i cento ritratti di politici ("Tutti prigionieri nello stesso condominio"), c'è l'allegoria dei misteri e delle corruzioni italiane. Infine, nella bizzarra "Calata dei giustizieri", ha dipinto tanti strumenti per purificare gli intestini (o le coscienze?), dagli intrallazzi e dalle stupidità collettive del mondo contemporaneo.
    Apprezzato e conosciuto in tutt'Italia, Bonini aveva una suo modo di raccontarsi, ironico e pungente, ma sempre sincero.
    A Rimini ha anche insegnato, lasciando nei suoi allievi un ricordo affettuoso. La città lo ha visto come un protagonista, sempre discreto, ma pronto anche alla provocazione intellettuale.
    Non gli piacquero le statue astratte, esposte per qualche anno in Piazza Cavour: lo aveva detto con una satira affissa ad una finestra del suo studio, che si affacciava sul retro del Palazzo dell'Arengo. Qualcuno se la legò al dito.
    Quando il Comune, per volontà del sindaco Conti, nel 1985 rese omaggio ai suoi 50 anni di attività con una mostra antologica, ci fu chi, al suo sarcasmo dettato da ragioni estetiche e civili, rispose con un attacco ingeneroso, pieno di quel livore che la vita provinciale sa far lievitare lentamente, con ridicole gelosie infantili.
    "Non volevano la mostra", mi raccontò sorridendo, "perché dicono che si rende omaggio soltanto ai morti. Mi dispiace che non li ho potuti accontentare".

    Antonio Montanari
    "Il Ponte", anno XVI. n. 31, Rimini I settembre 1991

    Al sommario del "Rimino" [storico]
    Archivio del "Rimino" in questo sito


    Indice Antologia


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  • ANTOLOGIA

    «Ritratto di un artista da giovane»
    Fellini autore di testi radiofonici presentato dalla Rai
    , "il Ponte", 2002

    Venerdì primo febbraio sera, Radiotre ha trasmesso «Ritratto di un artista da giovane», un programma dedicato a Federico Fellini, del quale ha riproposto tre testi radiofonici degli anni 1941-42, ritrovati recentemente da Paquito Del Bosco presso l'Archivio di Stato di Roma e l'Archivio nazionale della Siae (Società Italiana Autori ed Editori). Paquito Del Bosco ne aveva dato notizia al convegno riminese della Fondazione Fellini (1997) con una comunicazione intitolata «Radio Fellini» (ora in «Federico Fellini da Rimini a Roma 1937-1947», Capitani ed. 1998, pp. 94-96).
    L'allestimento è stato curato da Idalberto Fei, con la partecipazione, tra gli altri, di Paolo Poli, Sandra Milo, Gisella Sofio e Riccardo Garrone. Il critico teatrale Rita Cirio ha portato la sua testimonianza sul regista riminese: Fellini, ha detto, amava i libri, non la radio o la televisione; questi testi sono piccole commedie musicali ispirate ad un «surrealismo bonario» che è rimasto nei suoi film.
    Agli allestimenti originali aveva partecipato quale regista Silvio Gigli. Durante l'esecuzione di questi lavori, Federico conobbe all'Eiar (la Rai del tempo) Giulietta Masina che sarebbe divenuta sua moglie.
    In «Se ci sei canta una canzone» (1942, scritta con Riccardo Maccari), appare il «grande Olaf», il mago che sa tutto, non un ciarlatano qualsiasi, un «vero fenomeno». Tre clienti bussano alla sua porta, accolti dall'Ancella-segretaria che, come si scoprirà alla fine, è quella che anima nascostamente le sedute spiritiche emettendo le vocine oltremondane e ponendo sul piatto del grammofono le canzoni a cui le anime dei trapassati affidano la testimonianza della loro presenza.
    Interviene prima Quercia Verde, spirito arrabbiato con i medium in generale, che la seccano con le più assurde pretese (qualcuno ordina di andar a prender un bicchiere d'acqua, oppure di pulire i pavimenti, chiedono persino cento lire in prestito, o di radergli la barba). Poi, arriva una delle sorelle Tulipano, corteggiate invano da uno dei presenti (avaro e bugiardo). Assente invece Giuseppe: ha telefonato che non può venire perché ha l'influenza, annuncia la deliziosa voce dell'Ancella (Gisella Sofio). Quando è il momento di zia Marisa, la stessa Ancella è costretta ad annunciare che la buonanima è impedita di cantare perché sono finite le puntine del giradischi. Di qui la rissa conclusiva, con la scoperta del grammofono celato dietro l'immancabile tenda dello studio magico.
    In «Una lettera d'amore» (1942, del solo Fellini) Roberto ed Adrianella sono due innamorati che il destino separa perché lui scappa dal suo paesello in città per cercare lavoro. Promettono di mandarsi ogni giorno una lettera con i loro segreti ed i loro pensieri. Ma purtroppo i giovani non sanno né leggere né scrivere, e quindi per tener fede alla promessa s'inviano soltanto dei fogli bianchi, come la stessa Adrianella aveva escogitato. Lì sopra, Roberto ed Adrianella leggono «le più belle frasi d'amore». Poi lui impara a scrivere e non vuole più bene a lei. Manda ad Adrianella un foglio bianco, dicendole che ora non l'amava. Lui si sposa, ma lei non lo sa, anzi lui continua a spedirle i suoi fogli bianchi dove Adrianella legge sempre «le più belle frasi d'amore». La ragazza gli risponde di continuo, al punto che la moglie di Roberto s'insospettisce, parla di pazzi, vorrebbe avvisare la polizia. Ma Roberto continua a spedire i fogli in bianco ad Adrianella, che ogni volta s'illude di essere ricambiata e continua a sperare. (Il narratore di questa scena è stato lo scrittore Giorgio Pressburges, che dirige l'Istituto di cultura italiana a Budapest, dove i tre testi felliniani sono stati di recente presentati in anteprima, tradotti in ungherese.)
    Infine, «Vuoi sognare con me?» (1941, di Fellini-Maccari), racconta la storia di una città posta sopra una nuvoletta rosa vicina alla Luna, dove la gente, appena si addormenta, comincia ad arrivare per vedere sogni meravigliosi. E' un luogo sempre aperto, l'orario permette di accogliere anche i libertini nottambuli che arrivano alle sette del mattino, quando gli altri se ne vanno, per cominciare a svegliarsi ed a vivere. Ci sono parodie musicali che intercalano il testo recitato. E' una specie di interpretazione gozzaniana della psicanalisi, con lo studente che interroga severamente sulle squadre di calcio gli odiati professori, o i tre austeri docenti di liceo che borbottano di non aver voglia d'andare a scuola.
    La trasmissione di questo «Ritratto di un artista da giovane» testimonia la vivacità della radio non chiacchierata od urlata, ma condotta con l'intelligenza che caratterizza la terza rete della Rai.
    Antonio Montanari
    "il Ponte", 2002, n. 6


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  • La famiglia di una volta

    Una ricerca della III F dell'Istituto "Roberto Valturio"

    di Rimini, 1989-1990


    Tra autobiografia e documentazione storica, pubblico una ricerca fatta nella 'mia' III F dell'Istituto Valturio di Rimini nell'anno scolastico 1989-1990.

    Eccone il testo completo.

    Gli alunni della III F dell'Istituto "Roberto Valturio" di Rimini, nello scorso anno scolastico 1989-1990, hanno avviato un dialogo su questi temi, poche decine di minuti alla settimana, nei ritagli delle due ore di Storia ed Educazione Civica. Ne è venuta fuori una raccolta di testimonianze che siamo lieti di presentare. [a.m.]

    INTRODUZIONE
    1.
    La famiglia nella società ha sempre avuto un ruolo fondamentale, in particolar modo per quanto riguarda l'educazione dei figli.
    Infatti, è proprio l'ambiente famigliare in cui il ragazzo vive, che condiziona il suo carattere e la sua personalità, e che quindi lo aiuta a crescere, determinando il rapporto con gli altri e l'inserimento nella società.
    E' interessante osservare come, con il passare del tempo, il nucleo famigliare si sia più volte trasformato ed evoluto nella sua struttura ed anche nei rapporti fra i vari componenti della famiglia.
    Oggi, un esempio lampante lo possiamo ricavare confrontando la famiglia moderna (quella in cui viviamo tutti i giorni), con quella dei nostri genitori ed ancora meglio con quella dei nostri nonni: la cosiddetta famiglia patriarcale.
    2. Infatti, benché siano passati soltanto 50-60 anni, un periodo cioè relativamente breve, non si può negare che la famiglia sia totalmente cambiata.
    Gli aspetti di questo nucleo famigliare 'antico', si possono delineare attraverso le notizie raccolte mediante interviste a genitori e nonni, che ci hanno dato la possibilità di sapere qualcosa di meno vago rispetto a quanto sapevamo della vita dei nostri genitori.
    Questo lavoro ci ha permesso anche di capire che il mondo in cui viviamo noi, oggi, ha le sue radici in quelle determinate abitudini e in quei modi di vita.
    3. Gli aspetti emersi dalla nostra ricerca, li abbiamo raggruppati attorno a questi temi:
    a) organizzazione della famiglia e rapporto con i genitori; b) istruzione, cultura ed informazione; c) matrimonio e dote; d) economia; e) divertimenti, pranzi e feste.
    4. L'importanza di questo lavoro, è stata soprattutto quella di farci capire che le persone, molto spesso, sono portate a non considerare degno d'importanza il passato, non rendendosi conto che tutto quanto viviamo oggi noi, non è altro che il frutto dei sacrifici delle generazioni passate.
    Per questo fatto, non abbiamo, in nessun caso, il diritto di disprezzarle.
    5. Non dobbiamo essere sicuri, poi, che la nostra famiglia sia migliore di quella di un tempo. Naturalmente, è vero che in essa il dialogo è più aperto, si parla più liberamente, si può facilmente continuare gli studi, ecc.
    Ma, se da una parte abbiamo ottenuto tutto questo, dall'altra abbiamo perso certi valori importanti, come la solidarietà ed il vero legame famigliare, che sono stati sostituiti dall'indifferenza e dalla solitudine.
    6. Questo ci deve far riflettere, e far nascere in noi una domanda: "Se nel giro di pochi anni il mondo è cambiato così velocemente e radicalmente, cosa accadrà di qui ad altrettanti anni?".
    Il futuro ci deve preoccupare. Dobbiamo stare attenti perché, se i modi di vita cambiano alla pari delle mode, è importante che noi riusciamo a vivere la nostra vita rispecchiando determinati ideali.
    7. L'esperienza di questo lavoro scolastico è stata molto utile anche a livello personale, perché dandoci l'opportunità di avvicinarci di più ai nostri genitori, ci ha fatto comprendere meglio la loro mentalità ed il significato di certi rimproveri che ci rivolgono. E ci ha fornito pure l'occasione di colmare in parte l'abisso che tende a crearsi tra generazioni diverse.
    Classe III F - Anno scolastico 1989-1990
    Istituto "Robero Valturio" - Rimini

    Capitolo I
    L'organizzazione della famiglia ed il rapporto con i genitori
    1.
    Colloquiando con mio padre, sono venuto a conoscenza di alcune cose che mi hanno fatto riflettere molto sul rapporto tra genitori e figli.
    Personalmente, devo confessare di essere alquanto fortunato, perché, pur avendo genitori non molto giovani, ho instaurato con loro un rapporto aperto ed ampio, a differenza del rapporto che esisteva quando erano ragazzi i miei genitori.
    In particolare, mi ha colpito il fatto che i genitori non parlavano molto con i loro figli, e se lo facevano, non erano molto aperti: infatti, c'era un clima di severità e di divisione tra le generazioni.
    Il rapporto veniva ancora ulteriormente congelato se l'aspetto che si trattava era ad esempio il sesso, argomento che non era mai trattato.
    Questa situazione è da collegare con le idee del tempo. Infatti, c'era il padre o comunque il più anziano che era a capo di tutto, e praticamente era come un catalizzatore nella vita famigliare. Tutte le decisioni dovevano passare sotto il suo giudizio.
    In contrapposizione a questa situazione che tendeva ad unire le famiglie numerose, c'era invece un rapporto tra genitori e figli che si limitava soltanto alla prima, ma neppure importante educazione, e poi soprattutto a tramandare di padre in figlio il mestiere principale che sosteneva economicamente la famiglia; quindi nel complesso il dialogo non era molto approfondito.
    2. Si parlava di meno nella famiglia patriarcale, rispetto ad oggi, perché allora c'era il terrore da parte dei figli di esprimersi a sproposito, e soprattutto perché s'imponeva su tutti l'immagine del padre serio, severo.
    Ai genitori di dava del 'voi', perché si voleva evidenziare il rispetto che andava portato verso di loro. Di regola, il padre era più rigido della madre, mentre quest'ultima, specialmente nelle famiglie numerose, assumeva le mansioni di una serva.
    I figlio dovevano lavorare e tacere. Una nonna racconta che in casa sua bastava lo sguardo del marito per far chiudere ogni discussione. E gli undici figli obbedivano in silenzio.
    3. La famiglia patriarcale era molto numerosa. Erano gli anni del fascismo: e lo stato dava soldi a chi si sposava o chiamava i figli col nome del duce, e a chi aveva molti figli non venivano fatte pagare le tasse.
    Una testimonianza di una nonna di 71 anni: "Nella maggior parte delle famiglie, la donna aveva la cura dei figli e della loro educazione. Gli uomini diventavano operai, contadini e soprattutto braccianti. Alcuni emigravano verso altri paesi, in cerca di un lavoro e di un avvenire migliore, lasciando moglie e figli in Italia".
    Un padre di 63 anni: "In casa nostra eravamo in 23 persone, tra zii, genitori e cugini, mentre mia madre era la sorella maggiore di nove figli. La famiglia era priva di assistenza medica, in compenso aveva un gran senso religioso: infatti, tutti erano molto credenti. Mio zio, sentendo le campane dell'Ave Maria, smetteva per un momento di lavorare e si toglieva il cappello".
    4. Una nonna di 75 anni: "Mio babbo morì che io ero la più piccola di quattro fratelli, allora la mamma decise di andare da mio zio, perché non riusciva a sostenere economicamente la famiglia. A casa dello zio, io dovevo rimanere sempre in casa, per fare le faccende, mentre tutti gli altri lavoravano fuori. Così io ero sempre quella con meno soldi, ed anche quando incominciai a lavorare, la maggior parte dei soldi che prendevo, li pretendeva mia madre. Quando mi sono sposata, non volevo andare ad abitare da mio marito, perché loro erano in molti: ma mio suocero non avrebbe mai permesso di sposarci se non fossi andata a vivere con loro… In quella casa, chi comandava era mio suocero, un uomo acido e severo che aveva un gran potere, tanto che lo chiamavo 'il generale'. Tutti i figli avevano una gran paura di lui, sua moglie era come una serva che non si lamentava mai, ed i figli davano sempre ragione a lui. Io ero l'ultima di quattro nuore, la mia camera era la più piccola: la più grande era toccata al primo figlio che si era sposato. A tavola, non sedevo vicina a mio marito, ma all'ultimo posto perché ero arrivata per ultima. Noi nuore, eravamo considerate come delle operaie che lavoravano, e tutti i nostri guadagni dovevamo darli al capofamiglia, che decideva come spenderli: ma lui comperava solo per la moglie e per i figli, e noi nuore dovevamo arrangiarci".

    Capitolo II
    L'istruzione, la cultura e l'informazione

    1. Ogni persona, attualmente, ha un'istruzione obbligatoria di otto anni di scuola. Molti anni fa, questo problema non si poneva. Infatti, era già molto finire la quinta elementare, chi ci riusciva, e soprattutto chi poteva. Gli altri si accontentavano di arrivare alla terza elementare, e poi dovevano andare a lavorare, se appartenevano a famiglie non benestanti. Logicamente, chi aveva più danaro, poteva continuare negli studi.
    Generalmente, erano i genitori ad obbligare i figli a smettere la scuola, o perché dovevano aiutare la madre, nel badare anche i fratelli più piccoli, o perché ad esempio i maschi dovevano lavorare nei campi.
    I giovani si rendevano conto che bisognava stare a casa ad aiutare, rinunciando alla scuola, anche se ciò comportava molto dispiacere e sconforto, perché a quei tempi i giovani erano desiderosi di istruzione. Molti genitori, se non la maggior parte, erano analfabeti. Il tempo per andare a scuola non c'era, bisognava soltanto pensare a guadagnarsi da vivere, con la propria fatica.
    Di solito, le bambine oltre a badare i piccoli, facevano la tela in casa. I maschi erano addetti ai lavori pesanti.
    2. Mia nonna non poté andare a scuola perché quand'era bambina in quelle campagne non c'era la scuola. La maestra arrivò quando mia nonna aveva sedici anni. Così non imparò a leggere e a scrivere, e di ciò si dispiace tuttora.
    Per quanto riguarda i suoi figli, non poterono studiare perché dovevano lavorare e portare i soldi in famiglia. Su undici figli, due morirono ancora piccoli.
    studiarono fino alla quinta elementare soltanto i quattro maschi che dovevano occuparsi della famiglia.
    Uno soltanto proseguì, con grandi sacrifici della famiglia, essendo ammalato e non potendo così lavorare duramente nei campi.
    Delle cinque femmine, una studiò, ma perché si fece suora, ed un'altra frequentò le medie senza proseguire.
    3. Un'altra storia. Solo in quattro su dodici componenti della famiglia di mia nonna, sapevano scrivere. Sette fratelli dovevano sempre lavorare, e a scuola non venivano mandati. L'ottavo che avrebbe dovuto andarci, non ne aveva voglia e marinava sempre le lezioni.
    Di quei sette, quattro erano maschi, ed impararono a leggere e a scrivere soltanto sotto le armi.
    Ma che cosa leggevano? I giornali non li comperavano, perché in quelle condizioni economiche bisognava prima pensare ad altre cose, piuttosto che alla spesa per acquistare un quotidiano od una rivista.
    A quei tempi c'era la radio, che però avevano soltanto i signori nelle città. Quindi le notizie si avevano dalla gente con cui si parlava, e che a sua volta veniva a saperle dagli altri.
    I miei abitavano alla Grotta Rossa. Il babbo comperò il televisore nel 1959: da allora, in casa nostra si riunirono tutti i vicini di casa che arrivavano anche da sei-sette chilometri di distanza. Con la tv, incominciarono ad avere le notizie dal mondo, tutti i giorni.

    Matrimonio e dote
    1.
    Quando le ragazze andavo nei locali da ballo, dovevano essere sempre accompagnate da un fratello maggiore.
    Già al momento della loro nascita, le mamme e le nonne cominciavano a preparare il corredo per il matrimonio, che a quel tempo era chiamato dote.
    La dote veniva fatta per le femmine soltanto, ed era preparata in casa, grazie al telaio che tutti avevano, ed in seguito erano le stesse giovani che si occupavano del ricamo a mano.
    Qualche giorno prima del matrimonio, la dote veniva messa in ordine ed esposta ai famigliari, all'interno della camera da letto della sposa.
    Il corredo era composto di solito da un certo numero di camicie da notte, tra cui una particolarmente bella, che doveva essere indossata la prima notte di nozze.
    Per quanto riguarda le spese del matrimonio, lo sposo doveva pagare la camera da letto e l'abito della sposa.
    Egli riceveva dai genitori, alla loro morte, tutti i loro beni, nel caso però che fosse il primogenito.
    Al momento del matrimonio, la sposa assumeva automaticamente il cognome del marito, e gli sposi erano obbligati ad andare a vivere dai genitori del marito.
    2. Mia mamma, al momento del matrimonio, non aveva confezionato il corredo, ma aveva conservato i soldi guadagnati, con il lavoro, da tutta la famiglia, e distribuiti in parti uguali a tutti i sette fratelli.
    Per mantenere la tradizione, comperò allora poche lenzuola, in quanto i soldi sarebbero serviti per pagare la nuova casa.
    Era già una differenza con le tradizioni del passato, quelle dei nostri nonni, quando la donna andava a vivere in casa del marito con la sua famiglia.
    Forse deriva proprio da questo fatto, l'usanza di costituire una dote, che consisteva nel corredo, ma anche in apporti economici, come terreni ed animali.
    Mia nonna aveva in casa sua un telaio con il quale, giorno per giorno, realizzava il suo corredo, o quello delle sorelle, che veniva poi ricamato a mano.
    Per quanto riguarda l'eredità, il padre di mia madre aveva fatto parti uguali, senza alcuna distinzione, poi però la nonna (forse più legata alle tradizioni), aveva voluto una piccola parte in più per il maschio maggiore.

    Capitolo IV
    L'economia

    1.Quando la famiglia era di tipo contadino, naturalmente i suoi utili derivavano dall'agricoltura e dall'allevamento di bestiame e di galline.
    Una parte dei raccolti veniva tenuta per il fabbisogno, ed il resto venduto. L'uva, però, si teneva tutta. Invece, il vino ricavato, in parte si consumava ed in parte si vendeva alle osterie di Rimini.
    Gli altri raccolti venivano ceduti così: ai mugnai il grano ed il granturco, il resto era venduto alle botteghe o sul mercato ortofrutticolo. Vitelloni, polli, conigli, maiali, cavalli ed anche bachi da seta venivano ceduti alla fiera. Gli unici animali che non si vendevano erano i buoi che si usavano per coltivare la terra.
    2. Non possedendo la terra che coltivavano, i contadini dovevano cedere una parte degli utili ai padroni. I vitelli e le mucche li comprava il padrone, e li doveva mantenere il contadino. Il padrone voleva anche una percentuale di polli e di uova nel corso dell'anno.
    3. Un tempo i soldi erano pochi, in quanto il guadagno era scarso e le spese a cui provvedere erano tante. Così, molto spesso si ricorreva al baratto, quando si andava a comperare nelle botteghe i generi di cui si aveva bisogno.
    4. Un'altra storia di ambiente contadino. Prima che mia mamma nascesse, i nonni avevano un appezzamento di terreno in montagna: e poiché non era fertile, decisero di venderlo e di andare a lavorare "sotto padrone" in collina.
    I guadagni dovevano essere divisi con il padrone per quanto riguardava i prodotti agricoli, mentre i soldi ricavati dalla vendita di animali da cortile, andavano tutti ai miei nonni.
    Al tempo della mietitura, tutti i parenti andavano al podere per aiutare nel lavoro, e ricevevano in cambio lo stesso servizio in un momento successivo.
    Dopo la mietitura, chi voleva, andava a raccogliere i residui di cui si appropriava, senza doverli dividere con nessuno: era la cosiddetta "spigolatura". [Ma alcuni 'padroni' pretendevano una parte del raccolto della "spigolatura", n.d.r.]
    Il guadagno della famiglia era costituito anche dalla vendita dei conigli e delle loro pelli che venivano raccolte, assieme al ferro vecchio e agli stracci, da un uomo che passava casa per casa, col suo grido consueto: "Strazz, doni, oh!". I soldi ricavati venivano dati ai figli.
    5. Una situazione ben diversa era invece quella della famiglia di mio babbo che, non avendo un podere, fu costretta ad emigrare in Germania, dove trovò lavoro presso un campo che ospitava operai italiani.
    Mia nonna, contro la sua volontà, dovette cucinare per tutti quegli italiani, invece di andare a lavorare assieme ai suoi connazionali. Di quel periodo ricorda ancora due parole tedesche che significano "piano" e "bene".
    6. La famiglia dei miei nonni era invece alquanto "signorile", in quanto il nonno era impiegato nelle Ferrovie, con un lavoro cioè che consentiva una vita un pò agiata. La nonna era casalinga.
    In quella famiglia, che aveva otto figli, esisteva un buon rapporto basato sulla solidarietà, tanto che tutti andavano d'accordo tra loro.
    I maschi frequentarono le scuole industriali e poi si impiegarono nelle Ferrovie, tramandandosi il lavoro paterno. Le figlie non potevano allontanarsi dalla famiglia e così si prestarono a lavorare come sarte, all'età di diciassette anni, per arrotondare lo stipendio del loro padre e far quadrare il bilancio della famiglia.

    Capitolo V
    Divertimenti, pranzi
    e feste
    1.
    Una volta gli svaghi per i giovani erano ben diversi da quelli di oggi. Infatti, non esistevano discoteche, anche se c'erano dei modesti locali dove si poteva andare a ballare.
    Comunque, nella maggior parte dei casi, i giovani si riunivano in feste che venivano date una volta in casa di un amico,una volta in quella di un altro.
    In queste feste non si usava soltanto ballare, ma si mangiavano anche dolci e torte, e si facevano molti giochi. Ognuno dei partecipanti s'impegnava a portare qualcosa. Di solito, il padrone di casa pensava al rinfresco, mentre gli altri procuravano il giradischi ed i dischi.
    Queste feste di solito duravano fino a tarda sera, ed i giovani non potevano andarci soli, infatti c'era l'obbligo che fossero accompagnati da una persona più anziana che li controllasse, particolarmente se andavano in un locale pubblico.
    2. Ai giovani non era permesso di uscire molto spesso, fatta eccezione per il periodo di carnevale.
    Anche le persone adulte usavano riunirsi. Era un'abitudine della famiglia contadina quella di ritrovarsi insieme agli amici, la sera in inverno, nelle stalle, che erano i luoghi più caldi.
    Durante queste "veglie", gli uomini erano soliti fumare e giocare a carte, discutendo del più o del meno, mentre le donne facevano la calza. Inoltre, durante il mese dei morti, alla "veglia" si pregava davanti ad un piccolo altare costruito in casa, e spesso si accendevano ceri e candele.
    Quando arrivava la primavera, al tempo delle pannocchie e del grano, ci si riuniva nelle aie, dove si scherzava, si suonava e si ballava in allegria.
    3. Nella vita della famiglia contadina, un momento molto importante era il pranzo, che rappresentava un incontro tra parenti ed amici, soprattutto nelle occasioni speciali, come Natale, Pasqua o alla fine della trebbiatura.
    In queste grandi occasioni, si mangiavano cibi molto prelibati per quel tempo, come carne, cappelletti, capponi.
    Molto spesso, questi pranzi erano allietati anche dalla musica e dalle danze.
    Escluse queste poche occasioni, la tavola contadina era molto povera. Infatti, si mangiavano solitamente patate, fagioli e polenta.


    [I testi sono stati curati da:
    Arena Lucia,
    Balducci Raffaella,
    Berardi Massimo,
    Bugli Stefano,
    Calandrini Patrizia,
    Canini Marzia,
    Catani Candida,
    Gallinucci Andrea,
    Mussoni Raffaella,
    Peruzzi Benedetta,
    Pesaresi Valeria,
    Urbinati Luigi.]

    Antonio Montanari



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